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«Narcolessia, così abbiamo svelato le cause»

Non capita tutti i giorni di pubblicare su Nature, una delle riviste con il più alto “impact factor” (la capacità di influire sulla comunità scientifica) del mondo, e di essere citati anche nell’editoriale della stessa rivista. È successo a un gruppo di ricercatori di alto livello che lavorano in diverse istituzioni ticinesi (Neurocentro, IRB di Bellinzona) e della Svizzera interna (Politecnico di Zurigo, Inselspital di Berna, Clinica Barmelweid, Università di Losanna, Università di Zurigo), nonché tedesche (Università Witten/Herdecke). Tema della ricerca: le cause della narcolessia, un disturbo neurologico invalidante che provoca, fra gli altri sintomi, un’eccessiva sonnolenza diurna con colpi di sonno incoercibili. I ricercatori sono riusciti a individuare, grazie a sistemi ultra-avanzati, alcuni particolari tipi di linfociti T (cellule fondamentali del sistema immunitario) che distruggono, per errore, le cellule dell’ipotalamo (una regione del cervello) destinate a produrre l’ipocretina, una proteina che regola il ciclo sonno-veglia e anche alcuni comportamenti emotivi. Proprio l’assenza di ipocretina provoca poi la narcolessia. Ma perché è stato così difficile individuare questi linfociti T “sbagliati”?
«Mi verrebbe da dire perché sono pochissimi - risponde Mauro Manconi, responsabile del Centro del sonno ed epilessia del Neurocentro della Svizzera Italiana e coautore dello studio pubblicato da Nature. - All’Istituto di Ricerca in Biomedicina sono state messe a punto tecniche molto avanzate per isolarli, coltivarli e identificarli. Si ipotizzava da tempo che la narcolessia avesse un’origine autoimmune (cioè che fossero le stesse cellule del sistema immunitario, appunto, ad aggredire per errore le parti sane dell’organismo, ndr), ma non erano chiari i meccanismi, prima di questo studio».

Come si faceva, allora, a diagnosticare con sicurezza la malattia?
«La narcolessia - continua Manconi - è stata descritta, in realtà, già nel 1877, e ormai l’insieme dei sintomi è ben delineato da tempo (non lo era, invece, la natura più profonda, biologica della malattia). Questi sintomi sono: colpi di sonno improvvisi durante il giorno; allucinazioni nel momento in cui il paziente si addormenta; paralisi da sonno (il paziente si sveglia con la sensazione di avere il corpo immobilizzato); perdita improvvisa del tono muscolare, per effetto di una forte emozione, anche positiva come una risata (in termine tecnico si chiama cataplessia). Ma non basta: per parlare di narcolessia bisogna anche che i colpi di sonno siano più di uno al giorno e che appaiano “efficaci e invincibili”, come si dice nel gergo medico. In genere sono brevi (10-20 minuti) e contengono il cosiddetto sonno rem (quello in cui il paziente sogna), che normalmente compare, invece, solo dopo un’ora dall’addormentamento. Ben diversi sono i classici “pisolini”, che durano anche 30 minuti e più, e non cominciano subito con la fase rem».

Dunque la narcolessia non è una malattia così misteriosa, come a volte si dice...
«Lo è stata fino a circa vent’anni fa, visto che questi sintomi facevano spesso pensare a patologie psichiatriche (e non a danni organici di zone precise del cervello, innescati dai linfociti T “sbagliati”)».

Quando è avvenuta la svolta?
«Quando ci si è resi conto, alla fine degli anni ’90, che il cervello dei malati di narcolessia non produceva l’ipocretina, indispensabile per rimanere svegli. Questa è stata la “rivoluzione”, che ha permesso di aprire la strada all’ipotesi neurologica di un danno ipotalamico».

Può spiegare più nel dettaglio, ma in parole semplici, che cosa avete scoperto?
«Sì: nell’ambito dei linfociti T estratti dal liquido cerebrale dei pazienti con la narcolessia sono stati individuati particolari tipi di linfociti T-CD4 e CD8 (si chiamano così in termine tecnico) che reagiscono contro l’ipocretina. Questi linfociti possono causare un’infiammazione che danneggia i neuroni dell’ipotalamo destinati a produrre l’ipocretina e li distrugge. Grazie al metodo sviluppato all’IRB è stato possibile anche identificare le interazioni molecolari che portano i linfociti “sbagliati” a riconoscere l’ipocretina».

Tutto questo permetterà di bloccare sul nascere la narcolessia?
«Per ora no, purtroppo, perché quando compaiono i primi sintomi della malattia il danno, quasi sempre, è già avvenuto in modo irreversibile: i linfociti T alterati del sistema immunitario, cioè, hanno già distrutto tutti i neuroni (un numero limitato: solo poche centinaia) che nell’ipotalamo producono l’ipocretina. Grazie allo studio pubblicato su Nature, però,  diventerà possibile individuare con assoluta precisione la malattia, senza analisi invasive (come la puntura lombare, che invece viene di norma usata per arrivare alla diagnosi). Basterà un semplice prelievo di sangue, e questo permetterà anche di velocizzare l’iter terapeutico, procedendo subito con i farmaci, che consentono di tenere bene sotto controllo i sintomi della narcolessia. Non escludo, comunque, che in futuro possano essere sviluppate tecniche innovative per una diagnosi precocissima (prima che i neuroni dell’ipotalamo vengano distrutti), grazie anche a questi nuovi studi».

Data ultimo aggiornamento 9 ottobre 2018
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Narcolessia: ecco le cause di una malattia misteriosa


Tags: Istituto di Ricerca in Biomedicina, Neurocentro, sonno, Svizzera



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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