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E’ vero: lo stress aggrava la psoriasi, ma un vecchio farmaco potrebbe prevenire le crisi

Lo stress aggrava la psoriasi e provoca riacutizzazioni in chi già ne soffre. Quello che è un riscontro clinico e un’esperienza di molti pazienti, ha trovato ora una conferma sperimentale, una spiegazione e probabilmente una terapia, stando a qua to presentato al congresso della European Academy of Dermatology and Venereology (EADV) svoltosi ad Amsterdam nei Paesi Bassi, nei giorni scorsi. In esso infatti i dermatologi della Rappaport Faculty of Medicine del Technion-Israel Institute of Technology di Haifa, in Israele, hanno trapiantato alcune lesioni psoriasiche umane nei modelli animali, e le hanno curate con un cortisonico. Quindi hanno esposto per 24 ore metà degli animali a uno stress sonoro, e gli altri a un finto stress (neutro), e sono andati poi a misurare sia l’andamento delle lesioni sia quello di numerosi marcatori di infiammazione e autoimmunità, per due settimane. In tutti gli animali stressati le lesioni sono aumentate e si sono aggravate (come confermato dai parametri usati per quantificarle), mentre negli animali di controllo no. Inoltre, molti marcatori tipici dell’infiammazione, dell’autoimmunità e nello specifico della psoriasi (tra i quali le citochine CXCL10, IL-22, IL-15, IL-17A/F, IFN-γ, and TNFα) sono risultati aumentati.

La buona notizia è che i ricercatori sono andati oltre, testando gli effetti di un farmaco chiamato aprepitant, approvato come anti-emetico, ma in studio per la psoriasi perché diretto contro una delle molecole che aumentano nella malattia, e hanno avuto un esito molto promettente. Il farmaco si è rivelato in grado di prevenire circa l’80% delle lesioni indotte dallo stress e di normalizzare i valori dei marcatori. Se quanto osservato sarà confermato anche sui pazienti, presto potrebbero essere allargate le indicazioni di un farmaco già noto da molti anni, e disponibile.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 3 ottobre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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