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Verità e ironia, la sclerosi multipla in 16 selfie

La fotografa Egle Picozzi ha deciso di raccontare i sintomi della malattia utilizzando un linguaggio molto lontano da quello classico, con inaspettata leggerezza. Il progetto è stato premiato al Perugia Social Photo Festival

di Maria Santoro

La malattia nelle sue foto porta sempre lo stesso vestito. Cambiano solo gli accessori, ovvero i sintomi, che appaiono e scompaiono continuamente e lasciano sul giovane corpo di Egle Picozzi il desiderio di raccontare il cambiamento. Lei, 38 anni, di Oristano, è una donna straordinaria: commessa di giorno, ma fotografa nel cuore, ha deciso di parlare del suo rapporto con la sclerosi multipla, attraverso il progetto artistico intitolato SM, recentemente premiato con menzione d’onore al Perugia Social Photo Festival.

Sedici autoscatti rappresentano la malattia senza autocommiserazione, piuttosto con stupefacente leggerezza (VEDI LA GALLERY). Lei ama davvero la vita e attraverso l’obiettivo della sua fotocamera ci guarda dentro come fosse uno specchio magico, per affrontarla energicamente: «La sclerosi multipla mi è stata diagnosticata nel 2015, subito dopo una emiparesi al volto – racconta. – Il progetto fotografico SM è figlio di un momento particolarmente difficile per me, l’infiammazione dei nervi facciali, che per qualche tempo mi ha costretto a non uscire di casa. È stato allora che ho iniziato a lavorarci».

Molteplici in questi anni le “esplosioni” della malattia, episodi di neurite ottica, diplopia, rigidità, emiparesi, scosse, iperacusia, disartria e tanto altro ancora: «Ho sempre amato la fotografia - sottolinea - e ho studiato all’Istituto Europeo di Design a Torino. Non potevo avere tra le mani un altro mezzo altrettanto efficace per spiegare alla famiglia, agli amici e a tutte le persone che mi circondano cosa significhi davvero sclerosi multipla. Molto semplicemente, ho utilizzato oggetti comuni capaci di aiutarmi a mimare i sintomi e i problemi cui non posso proprio sfuggire».

All’inizio ha provato a scattare in casa, e soltanto quando i dolori le hanno concesso tregua ha scelto di trasferire il backstage nella caffetteria letteraria Drim Cafè di Oristano. «Qui, gli amici che gestiscono il locale - racconta - mi hanno aiutata a mettere in scena un tragicomico teatrino per giocare un po’ con questo ospite antipatico che si diverte a farmi dispetti. Io sono la protagonista, Lei, la mia fotografia, è stata la più importante terapia di recupero». 

Nelle foto, nastri, botti, ceste e mollette che si infilzano come piccole lame nella carne, fanno parte della narrazione: «Trasferiscono sullo spettatore quel che sento fisicamente, dolori e sconforto – continua Egle. – Il contesto non cambia, il vestito che indosso non cambia, i colori non cambiano, a mutare sono i disturbi sperimentati ogni giorno». 

In passato, durante gli anni trascorsi a Torino, ha condotto laboratori di fotografia sociale rivolti a persone diversamente abili e disagiate: «La fotografia mi ha sempre aiutata a superare momenti difficili, amori finiti o estremamente complicati, insicurezza, depressione – spiega. – La fotografia terapeutica, in particolare, riesce a esprimere stati d’animo e sentimenti inconfessati, aiuta a guarire la mente. Mi sento fortunata: nonostante le progressive lesioni all’encefalo e al midollo posso condurre una vita normale, camminare, lavorare».

Egle vorrebbe realizzare il "sequel" della sua prima raccolta di immagini, e presto si rimetterà all’opera: «Ho sempre lavorato - dice - fermandomi forzatamente soltanto durante i periodi nei quali mi è stato impossibile muovermi a causa delle flebo di cortisone prescritte per sfiammare i nervi. Dopo il fallimento di varie cure (interferone, copaxone, eccetera) oggi non assumo alcun medicinale. Lo ammetto, non sono un buon esempio, ma sto cercando altre soluzioni terapeutiche perché l’ultima risonanza ha evidenziato notevoli peggioramenti». 

Nel frattempo Egle si è dedicata anche a un altro progetto, Free to be free, una specie di outing fotografico: «Esprime il concetto di libertà corporea» – conclude. - Ad esempio, coinvolge donne coraggiose che si mostrano senza parrucca dopo la chemioterapia».

Data ultimo aggiornamento 14 gennaio 2018
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: sclerosi multipla



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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