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Un altro bersaglio anti-Covid:
le proteine del "complemento"

di Agnese Codignola

Il paziente era un signore di 71 anni, con diverse malattie in atto: ipertensione, colesterolo alto, insufficienza renale e malattia coronarica, quando si è ammalato di Covid-19, e per questo la sua condizione clinica era rapidamente peggiorata. L’uomo era già in ventilazione non-invasiva al momento della somministrazione di un nuovo farmaco per via endovenosa. Il trattamento è durato per 14 giorni, ma già dopo 48 ore i medici hanno osservato un drastico miglioramento dal punto di vista dei parametri clinici e di quelli di laboratorio. Dopo una decina di giorni il paziente respirava autonomamente e non presentava alcun effetto collaterale associato al trattamento, e nei giorni scorsi è stato dimesso.

La storia di questo paziente 1 è stata raccontata dai medici dell’Ospedale San Raffaele di Milano coordinati da Fabio Ciceri sulla rivista scientifica Clinical Immunology, la quale ha accettato di pubblicare i dati di un solo paziente – evento piuttosto raro - perché la terapia sperimentale provata è innovativa, come approccio, e assai promettente. Si tratta infatti di un farmaco chiamato AMY-101 che ha come bersaglio una proteina molto a monte della risposta infiammatoria, chiamata C3. Quest’ultima appartiene al cosiddetto complemento, un insieme di proteine che si attivano nell’immunità chiamata innata, nella quale non si ha la produzione di anticorpi ma una mobilitazione generale dell’organismo contro i patogeni.
Tale risposta comprende il rilascio di quelle citochine che sono all’origine della tempesta, cioè di una reazione eccessiva che può portare alla morte. Le terapie sperimentate con qualche successo finora per contrastarla, come l’anticorpo monoclonale tocilizumab (diretto contro l’interleuchina 6), agiscono tutte a valle di C3, quando gli eventi sono già accaduti e si cerca di neutralizzarne le conseguenze, ma intervenire su C3 potrebbe significare fermare tutta la reazione. Lo hanno spiegato pochi giorni fa lo stesso Ciceri e altri immunologi, tra i quali quello che è considerato il massimo esperto mondiale di complemento, John Lambris dell’Università della Pennsylvania in un altro articolo, questa volta pubblicato su Nature Reviews Immunology. In esso si spiega, tra l’altro, che alcuni studi, sia clinici che preclinici, suggeriscono che il sistema del complemento e in particolare proprio C3 possano giocare un ruolo chiave nella reazione iper-infiammatoria al nuovo coronavirus. Inoltre, si ricorda che il sistema del complemento risulta altamente attivato nei pazienti con le forme più gravi di Covid-19. E che allo stesso tempo, secondo alcune ricerche fatte sul modello animale del vecchio SARS-CoV – il coronavirus della SARS del 2003, molto simile all’attuale SARS-CoV-2 – inibire C3 o inattivarlo riduce significativamente l’infiammazione polmonare e la sindrome respiratoria. Tutti indizi che autorizzano a sperare che questa terapia possa avere successo.

Il farmaco utilizzato è ancora allo studio, ma ha già superato la cosiddetta fase 1, cioè i controlli relativi alla sicurezza, ed è autorizzato per uso compassionevole, nell’ambito di sperimentazioni cliniche come quella portata avanti al San Raffaele. «I risultati ottenuti hanno superato ogni attesa - ha commentato Ciceri. - Tuttavia solo il tempo e un numero maggiore di pazienti trattati ci dirà se questo tipo di farmaci possa davvero fare la differenza, come crediamo. Speriamo che il mondo medico e scientifico concentri i suoi sforzi anche in questa direzione».

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Nella foto dell’agenzia iStock, l’ospedale San Raffaele di Milano, dove è stata eseguita la sperimentazione

Data ultimo aggiornamento 9 maggio 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Troppa fretta per il vaccino Così aumenta il rischio tossicità


Tags: coronavirus, Covid-19, ospedale San Raffaele



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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