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Soffro, dunque mi ammalo?

di Maria Giovanna Luini

La relazione tra dolore psichico e malattia è considerata evidente da alcuni, impossibile da altri. Esiste una via di mezzo? Come può il dolore scatenare una malattia fisica?

A questo spazio di ragionamento pubblico e riflessione capiterà spesso di cogliere qualche spunto dalla vita quotidiana, dalle abitudini apparentemente piccole, dal pensiero che accomuna tanta o poca gente. Sono convinta che dietro la realtà che consideriamo “banale” si nasconda il segreto vero della vita, una saggezza che – se osservata con rispetto e senza le forzature di una deriva pseudomagica – sussurra alcune verità di cui dovremmo accorgerci per vivere meglio e a lungo. 

Mi è capitato in questi giorni di ricevere un numero piuttosto alto di messaggi e domande su un argomento specifico: la relazione tra il dolore (lutto) e la malattia. Per la verità alcuni messaggi non ponevano domande ma affermavano con una certezza che un po’ mi ha inquietato: il dolore provoca malattie del corpo, in particolare i tumori. Penso che chiunque ostenti una certezza inamovibile abbia buchi enormi di insicurezza che cerca disperatamente di nascondere, ma – psicologia spicciola a parte – è vero che già anni fa alcuni studi hanno suscitato più di un sospetto in proposito: capita che alcuni lutti che colpiscono in modo terribile e brutale e con molta sofferenza siano seguiti, a distanza di pochi anni, da malattie tumorali che nelle donne colpiscono in modo specifico l’apparato genitale (utero, ovaie, seno). Alcuni testi di medicina orientale individuano nei polmoni un altro organo bersaglio per emozioni come il dolore e la rabbia (parleremo più avanti della rabbia, grande creatore di disagio psicofisico). In più, il cosiddetto “crepacuore” è stato riconosciuto dalla scienza come evenienza possibile con precise caratteristiche di gravità. Le osservazioni esistono, ma nel caso dei tumori esistono anche smentite autorevoli: questa è la medicina, ecco perché la cautela nelle affermazioni è sempre doverosa.

Credo che stabilire una relazione diretta tra dolore e insorgenza di malattia sia sbagliato perché non esaurisce l’argomento. Non è vero che chi incappa in un grande dolore poi si ammala di cancro, il dolore psichico non è un fattore di rischio oncologico. La parte davvero importante su cui concentrarsi è la reazione al dolore, cioè l’uso che si fa delle emozioni di fronte a un lutto. Sto chiamando “lutto” la morte di una persona amata, una separazione affettiva, la perdita di un lavoro o delle risorse economiche, un fallimento: si allude al lutto come a una condizione di profondo cambiamento con la sparizione di qualcuno o qualcosa che aveva enorme significato. 

Quando un lutto ci travolge non esiste un manuale di istruzioni che ci insegni come viverlo, come affrontare il dolore nella sua straziante quotidianità. Sappiamo però che la psicologia e molte teorie di cura orientali e occidentali suggeriscono che il carico terribile di sofferenza non vada rimosso o piazzato da qualche parte in un finto oblio: il dolore va vissuto nei suoi accessi, manifestato attraverso il pianto, le urla, la tristezza e tutti i comportamenti che in modo fisiologico e “salutare” lo tirano fuori dalla nostra psiche. Il dolore che preme dal profondo chiede che si afferri un oggetto per spaccare qualsiasi cosa si trovi intorno, per esempio, o che ci si metta a gridare fino a finire la voce, o ci si ritiri per un po’ in un silenzio necessario.

Se volessimo ragionare in termini di energia potremmo dire che il nostro campo energetico (detto “Aura”) tende ad accumulare le emozioni nei propri strati, ma per non avere blocchi e conseguenti malattie fisiche deve continuare muovere, non intrappolare queste emozioni. Il dolore in sé non provoca malattia (con l’eccezione del danno cardiaco nei casi di crepacuore) ma, se non vissuto e non espresso con la libertà necessaria, può cronicizzare, formare un cumulo che blocca i flussi energetici in corrispondenza di alcune sedi corporee. E in effetti, anche senza tirare in ballo l’energia, in oncologia sappiamo che il maggiore rischio di malattia dopo un lutto non sta nel dolore in sé, ma nell’avere tentato di nascondere-rimuovere-gestire razionalmente questo dolore. Non a caso alcune terapie psicologiche per malati di tumore comprendono metodi vari per liberare le emozioni, tirare fuori i ricordi, stimolare il pianto negato. E non a caso lo psicomago Alejandro Jodorowsky (tutto si può dire, ma non che sia inefficace visto il tasso di guarigioni psicologiche che ottiene) nei propri seminari incita alla drammatizzazione, cioè a rappresentare dal vero i propri traumi agendo per liberarsene.

Le emozioni hanno un potere, è un potere tremendo in senso positivo e negativo: non dimentichiamo che ciò che dentro di noi può farci ammalare è anche capace di guarirci

In questo blog prendiamo la vita con lentezza, andando piano e per gradi intorno alla relazione possibile tra mente e corpo. Il dolore è un’esperienza umana profondissima e democratica, prima o poi riguarda tutti. Freud parla dell’elaborazione del lutto e dice che prima o poi dal dolore si esce, anche il più straziante dei lutti è destinato a mollare la presa e a lasciare spazio a una nuova vita: questo nell’elaborazione “sana”. Quando l’elaborazione non c’è e si blocca a un certo punto, la reazione non è più sana e proprio lì si dovrebbero puntare gli occhi per cercare i meccanismi che contribuiscono a generare, tra l’altro, molte malattie.

Data ultimo aggiornamento 27 febbraio 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: cancro, mente e corpo, tumori



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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