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La pillola del perdono

di Maria Giovanna Luini

Parlare di perdono è impresa ardua: la parola “perdono” evoca troppi significati spirituali e in un blog che vorrebbe unire mente e corpo, scienza attuale e dubbi e medicina integrata, infilare la spiritualità rischia di confondere le idee. Eppure il perdono andrebbe considerato molto al di là degli approcci filosofici e religiosi: è un atto emotivo, psichico, una decisione che prelude a un cambiamento di stato della mente che porta a una diversa condizione fisica. Può essere legato a una guarigione, per esempio, oppure a un più alto livello di benessere generale in chi è già sano.

Andiamo con un ordine che ci aiuti a capire. In questo blog ho già menzionato più volte la grande importanza dell’accumulo di emozioni bloccate, in particolare rabbia e frustrazione: conosciamo poco dell’interazione mente-corpo, ma quel poco riguarda le conseguenze fisiche di reazioni problematiche ai lutti e agli eventi della vita che creano rabbia. A quanto pare non sono il dolore e la rabbia in se stessi a creare malattia fisica, ma è il loro blocco nella psiche (o nel campo energetico, nella cosiddetta “Aura”) che a lungo andare provoca un danno al corpo fino alla vera e propria malattia. Ecco perché è scorretto dire che a priori i dolori e le grosse liti siano causa di malattie fisiche, ma è corretto sostenere che la reazione patologica a questi eventi possa danneggiare il corpo e addirittura (a volte) ridurre la sopravvivenza della persona.

Non sono le emozioni a danneggiarci, è il nostro modo di affrontare queste emozioni a determinare il nostro stato di salute.

La rabbia, in modo specifico, può fermarsi nella mente e/o nel campo energetico (potete non credere che tale campo energetico esista, la vostra convinzione non pregiudica minimamente questo discorso, perché vi basta sostituire con la parola “mente” o “psiche” il concetto di campo energetico). Quando decidiamo di non sfogare frustrazione e rabbia, quando riteniamo che un comportamento freddo che rimuove o nasconde le emozioni sia più adatto a noi, blocchiamo da qualche parte un carico di emozione che invece avrebbe dovuto uscire, trovare una via per andarsene, scovare un canale utile per manifestarsi e alleggerirsi un po’. 

Non siamo capaci di portare a lungo pesi psichici troppo grossi, soprattutto se questi pesi non hanno una valvola di sfogo, non si muovono dal rassicurante cantuccio dove abbiamo deciso di chiudere le nostre legittime emozioni: ecco che nei mesi, negli anni avviene una trasformazione complessa e pericolosa che può portare a una serie variegata e grave di sintomi e malattie. Non alludo solo al cancro (ma attenzione, perché accade molto spesso che nel passato dei pazienti con il cancro vi siano episodi di lutto con emozioni enormi vissute solo a metà): penso alle patologie cardiovascolari, alle malattie autoimmuni, a piccoli o grandi fastidi che condizionano pesantemente la qualità della vita.

Ecco che arriviamo al perdono. Quanti pazienti incontro ogni giorno e ascolto per ore, per arrivare a scoprire che nascondono rabbia mai vissuta e compressa, schiacciata da qualche parte nell’impossibilità di perdonare? Quante volte io stessa mi sono resa conto che, non riuscendo a perdonare torti passati, sono andata incontro a manifestazioni fisiche più o meno preoccupanti? La rabbia è l’emozione più feroce, soprattutto quando ci ostiniamo a nasconderla a noi stessi e agli altri: perdonare significa rilasciare questa rabbia, guardarla con onestà e magari urlare, fare qualcosa per viverla, poi lasciarla andare.

Perdonare è, appunto, lasciare andare. Vorrei che il perdono non avesse una valenza eccessivamente spirituale, perché ciò di cui sto parlando è un atto medico, una procedura terapeutica che non distingue tra persone atee e non atee, con spiccata tendenza alla spiritualità e materialisti puri: non importa che un perdono sia comunicato a chi ha provocato la nostra rabbia, non è ciò che conta. Andare ad abbracciare chi ci ha provocato rabbia non è strettamente necessario: possiamo farlo se sentiamo che ci farà bene, ma è un passo ulteriore in parte superfluo. Il nucleo della cura è cercare dentro di sé la rabbia, guardarla e permetterle di uscire andandosene via: non deve rimanere, non può creare ferite non rimarginate. Le cicatrici interiori sono ammesse, le ferite che rischiano di riaprirsi no. 

Il perdono è un atto personale e intimo, si può curare la psiche (e il campo energetico) decidendo di lasciare andare rancore, brutti ricordi e rabbia senza compiere un passo molto difficile di ammissione e riconciliazione con chi è oggetto e soggetto del nostro disagio. Il perdono terapeutico è fine a se stesso, cioè è dedicato alla salute di chi decide a un certo punto di amarsi e dedicarsi uno dei più coraggiosi e assoluti gesti di prevenzione.

Perdonare libera da legami psicologici che, volenti o nolenti, manteniamo proprio con quelle persone e quegli eventi che vorremmo a tutti costi dimenticare: i legami restano, molto più profondi di altri, finché ci ostiniamo a conservare in noi il rancore, la voglia di vendetta, la frustrazione feroce. Sono legami che bruciano e uniscono invece di dividere, mettono insieme percorsi di persone che non vorrebbero frequentarsi invece di permettere una sana, serena separazione.

Mi è capitato, soprattutto di recente, di prendere una decisione preventiva: non è stato facile ma sapevo di farlo per me stessa. Se non volevo aumentare il mio rischio di malattia dovevo perdonare, lasciare andare la rabbia per alcuni eventi che mi avevano profondamente ferito: non esiste altro modo quando ciò che stiamo bloccando in noi è un carico emotivo con grosse valenze di vendetta, rivalsa, frustrazione, rimpianto. Questo non significava ritornare a frequentare alcune persone, ma anzi il significato vero era un distacco più definitivo e sereno, pacifico e profondo. Non volevo ammalarmi per loro, non volevo stare male per eventi ormai passati. 

Se ci pensate è piuttosto banale: con un poco di zucchero la pillola va giù, con un poco di amore per noi stessi la rabbia se ne va.’

Data ultimo aggiornamento 5 luglio 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: mente e corpo, rabbia, tumori



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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