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I virologi: stop alle terapie
"stravaganti" (e del tutto inutili)


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di Agnese Codignola

Fino dai primi mesi di pandemia, la ricerca di farmaci che potessero avere qualche effetto contro il virus SARS-CoV-2, responsabile del Covid-19, è stata frenetica e ha portato a sperimentare medicine già approvate per altre indicazioni potenzialmente riposizionabili in chiave antivirale. Questo approccio, chiamato appunto repositioning o repurposing, può essere scientificamente fondato, perché è ben noto, ai farmacologi, che alcune molecole hanno più di un’azione e possono quindi rivelare, anche molti anni dopo la loro introduzione, capacità insospettate (si pensi, per esempio, all’aspirina e al ruolo nella prevenzione cardiovascolare, scoperto decenni dopo il suo arrivo). Oppure può essere del tutto irrazionale, e spinto da fake news che corrono sul web. 

Nel primo caso, ben si comprende perché, nell’urgenza di una situazione così drammatica, accanto alla ricerca di terapie del tutto nuove, molto difficili da realizzare, ci si sia orientati in parallelo su molecole già conosciute, selezionate anche con l’aiuto di programmi di intelligenza artificiale. Ma nella seconda modalità (quella indotta dalle fake news) si è trattato e ancora si tratta solo di pericolose falsità, di vere e proprie mode, in alcuni casi sostenute da interessi politici e commerciali che nulla hanno a che vedere con la scienza. Si pensi, per esempio, a uno dei casi più noti: quello dell’antimalarico idrossiclorochina, propagandato da Donald Trump (che aveva anche detto che avrebbe volentieri bevuto candeggina) e da Jair Bolsonaro, presidente del Brasile, nonostante non ci fossero basi per pensare a un effetto antivirale, e nonostante il farmaco sia tossico. Ma l’idrossiclorochina costa pochissimo, è prodotta in tutto il mondo, e alcuni governi avrebbero potuto quindi distribuirla facilmente, dando l’impressione di essere gli unici ad aiutare davvero le popolazioni di cui erano responsabili. Per fortuna, gli studi scientifici condotti anche in Italia hanno presto sbugiardato l’antimalarico e, soprattutto, i suoi sostenitori, ma la tendenza a credere nel farmaco miracoloso non si è mai del tutto spenta, non di rado alimentata da piccoli studi (su un numero ridotto di pazienti) che hanno lasciato intravvedere qualche spiraglio, ma che poi non hanno retto a controlli più stringenti.

Anche per questo è importante una verifica chiamata COVID OUT, condotta da un consorzio di ricercatori e clinici su tre dei grandi protagonisti degli ultimi mesi: l’antidiabetico metformina, l’antidepressivo fluvoxamina e l’antielmintico ivermectina (usato in veterinaria, per sverminare gli animali). Per tutte e tre le molecole, infatti, indizi di vario tipo ne avevano decretato un temporaneo successo, ma quanto riportato sul New England Journal of Medicine, che si aggiunge ad altri studi analoghi, potrebbe porre la parola fine ai tentativi di proporli come antivirali.
Nella sperimentazione, infatti, uno dei tre farmaci, oppure un placebo, è stato dato entro tre giorni dalla diagnosi ed entro sette dalla comparsa dei primi sintomi a oltre 1.300 persone di tutte le età (in un range compreso tra 30 e 85 anni), metà delle quali vaccinate, tutte in sovrappeso od obese e dunque a rischio di evolvere verso un Covid più grave. Di tutti sono stati verificati la carenza di ossigeno nel sangue (con valori di saturazione uguali o inferiori al 93%), le visite in Pronto Soccorso, i ricoveri e i decessi. Alla fine, confrontando quanto avvenuto nelle persone trattate con uno dei tre farmaci rispetto a quanto è avvenuto in chi invece aveva ricevuto solo un placebo, non è emersa alcuna differenza statisticamente significativa in nessuno dei parametri, prova evidente della totale, assoluta inefficacia dei tre farmaci, almeno per quanto riguardava il rischio che il Covid assumesse forme gravi.

Lapidario, e più che chiaro, il commento contenuto nell’editoriale scritto dai virologi Salim S. Abdool Karim, del Centre for the AIDS Programme of Research di Durban (Sudafrica), e Nikita Devnarain, del Department of Epidemiology della Mailman School of Public Health della Columbia University di New York, e riassunto nel titolo: «È ora di smetterla con i farmaci anti-Covid che non funzionano».
Nel testo gli esperti sottolineano come, oltre ai dati di COVID OUT, iniziato nel 2020, nei mesi se ne siano accumulati molti altri che non lasciano alcuno spazio al dubbio. Ad esempio, per la metformina ci sono stati 24 studi osservazionali che hanno coinvolto oltre tre milioni di diabetici con il Covid, e tutti hanno portato a concludere che il farmaco può avere qualche effetto protettivo se assunto già prima dell’infezione da SARS-CoV-2, ma non ne ha alcuno se assunto durante il ricovero.

Per quanto riguarda la fluvoxamina, poi, tre studi condotti su oltre 2.200 persone hanno fatto emergere che non c’è alcun effetto sui parametri associati alle forme gravi di Covid, nonostante alcuni dati iniziali avessero alimentato qualche speranza (ne avevamo parlato anche su Assedio Bianco), mentre sull’ivermectina sono stati condotti almeno 16 trial su un totale di 2.400 pazienti, ancora una volta senza che sia stato possibile dimostrare alcun beneficio per nessuno dei dosaggi proposti (secondo la moda più ricorrente, infatti, era necessario assumerla in dosaggi molto elevati, con gravi rischi).

La domanda finale, dunque, provocatoria, è: quanti studi devono essere fatti, e quanti pazienti devono essere trattati inutilmente prima di accettare il fatto che queste terapie, nessuna delle quali è innocua, sono inefficaci contro il Covid?
Eppure basterebbe seguire le linee guida dell’OMS, rese note prima della pubblicazione dei dati di COVID OUT, che già si esprimevano esplicitamente contro l’impiego di ivermectina e fluvoxamina (la metformina non era ancora citata). 

Anche per questo, secondo gli autori è del tutto evidente che i medici devono smettere subito di prescrivere farmaci di cui non sia dimostrata l’efficacia. Oltretutto, gli specialisti sanno che nessun farmaco, per l’organismo, è a costo zero, e che ogni terapia inutile ritarda e allontana la possibilità di assumerne una efficace, come un antivirale specifico o gli anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena)..

Non ci sono sempre risposte giuste in una pandemia, concludono i due virologi. Ma ce ne sono sempre di sicuramente sbagliate. E i pazienti devono essere sempre trattati con terapie che, in base ai dati disponibili, possano avere un effetto positivo: non meritano niente di meno.

Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Deludenti i risultati del plasma: ha scarsi effetti anti-Covid


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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