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Epatite B: nuove strategie
contro un vecchio nemico

di Agnese Codignola

Ci sono malattie infettive che, pur essendo ben conosciute, sembrano essere inattaccabili, se non si riesce a prevenirle con un vaccino. È il caso dell’epatite B, un’infezione trasmessa attraverso il sangue e i fluidi corporei che tende a cronicizzare nel tempo, dando prima una fibrosi, poi una cirrosi e quasi sempre, a quel punto, un tumore del fegato. Nonostante la malattia sia nota dalla fine dell’Ottocento e il virus responsabile (HBV) sia stato scoperto nel 1966, e nonostante sia disponibile un vaccino molto efficace, le terapie attuali non sono altrettanto soddisfacenti. Infatti consistono, da molti anni, nella somministrazione di interferone, un modulatore del sistema immunitario che rafforza la difesa, e analoghi dei nucleotidi (NUC), una classe di farmaci che contrasta la replicazione virale ma non riesce quasi mai a eradicare del tutto il virus, costringendo i malati a seguire la terapia per tutta la vita.

L’unica speranza di avere più successo, in casi come questi, è cercare di cambiare prospettiva e affrontare il problema da un punto di vista diverso. È quello che ha fatto uno dei massimi esperti mondiali di epatite B, Luca Guidotti. Dopo aver passato più di vent’anni all’Università della California, dove ha collaborato alla realizzazione del primo modello animale al mondo della malattia, e dopo esser diventato vice direttore scientifico dell’Ospedale e dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha pubblicato (insieme al collega immunologo Matteo Iannacone dello stesso ateneo) un articolo in cui sono esposte possibili strategie innovative.

Come si legge sulla rivista scientifica Nature, gli sforzi finora sono tutti partiti da un presupposto che sembrava essere valido per molte malattie virali croniche: se si riuscisse ad abbassare la quantità di proteine virali e, nello specifico, di antigeni di superficie (HBsAg) presenti nel fegato e nel sangue, l’ostacolo principale verso una cura definitiva sarebbe superato. In quel modo, infatti, i linfociti T della memoria potrebbero reagire contro i pochi virus rimasti fino a eliminarli. Su questo si basano pure alcuni nuovi farmaci che cercano di abbassare la concentrazione di HBsAg nel sangue o la loro produzione nel fegato: giunti ormai alla sperimentazione clinica, sono stati progettati per essere somministrati da soli o in aggiunta a interferoni e NUC.

Ma se tale presupposto fosse sbagliato, come suggerito da alcuni degli studi più recenti? Negli ultimi due anni, infatti, alcune ricerche hanno dimostrato che non c’è relazione tra quantità di HBsAg e mobilitazione o quantità di linfociti T attivati e che negli animali, anche togliendo tutto l’HBsAg dal sangue o bloccandone la sintesi nel fegato, la reazione del sistema immunitario non cambia. Per questo Iannacone e Guidotti pensano che, nella migliore delle ipotesi, i nuovi farmaci potrebbero aiutare a contenere l’infezione, ma non a eradicarla.

Per attivare il sistema immunitario in modo sufficiente, con ogni probabilità bisogna fare qualcosa di diverso e, in particolare, puntare sul microambiente, tenendo conto delle peculiarità di ciò che vi accade.

La prima è la costituzione stessa del tessuto epatico, molto specifica e talmente porosa che si calcola che, in ogni minuto, attraverso di esso passi non meno di un terzo di tutto il sangue circolante: un ambiente che aiuta i linfociti T circolanti a individuare gli HBsAg presenti sulle cellule del fegato anche senza uscire dai vasi sanguigni.

Una seconda particolarità è che quando le cellule T raggiungono il fegato e riconoscono per la prima volta gli antigeni dell’HBV sulle cellule epatiche, di solito diventano incapaci di combattere il virus. Ciò accade perché le cellule del fegato non riescono a fornire alle cellule T segnali specifici per la loro attivazione e differenziazione, e si pensa che questo sia il motivo per cui l’HBV e altri virus che colpiscono principalmente il fegato (come l’epatite C) riescono a dare infezioni per tutta la vita.

In terzo luogo, si ritiene che durante i lunghi anni dell’infezione (che in molti casi diventano decenni), la capacità dei linfociti T di reagire si affievolisca, e ciò suggerisce che a causare i guai principali, più che la quantità di HBsAg presente, sia la permanenza del virus.

Per tutti questi motivi, scrivono i due esperti, si dovrebbe probabilmente puntare su altro. Per esempio sui vaccini terapeutici, studiati cioè per curare l’infezione già in atto attraverso la stimolazione della risposta. Lo si potrebbe fare cercando di attivare le cellule che “presentano” l’antigene ai linfociti T (tra le quali vi sono quelle chiamate dendritiche). Queste cellule catturano gli antigeni virali e li trasportano appunto ai linfonodi. Qui entrano in contatto con i linfociti cosiddetti naive, che non hanno mai incontrato quell’antigene e che per questo sono pronti a specializzarsi. Grazie a specifiche molecole che funzionano come segnalatori, i linfociti “vedono” quelle cellule, iniziano a differenziarsi, quindi migrano nel fegato e lì combattono il virus.

Secondo una strategia analoga, i vaccini dovrebbero essere associati a immunomodulanti specifici e macrofagi del fegato chiamati cellule di Kupffer, sempre per attivare e far specializzare i linfociti T naive. Questi vaccini potrebbero essere molto utili soprattutto nei giovani o in chi ha contratto l’infezione da poco tempo, e dunque ha una reazione immunitaria che non si è ancora affievolita. Nei modelli preclinici animali, del resto, si sono già rivelati promettenti: tra gli immunomodulanti, un candidato particolarmente interessante sembra essere una citochina, l’interleuchina 2.

Infine, anche per quanto riguarda gli antivirali, si punta su farmaci di nuova generazione, diversi dai NUC, che abbiano come bersaglio le proteine della parte esterna del virus, il nucleocapside: alcuni sono già in sviluppo. Una combinazione di vaccini e antivirali di questo tipo potrebbe portare alla vittoria finale contro un virus che ancora non è del tutto sconfitto e che può provocare anche la morte, se non contrastato.

Nonostante sia disponibile un vaccino (in Italia obbligatorio insieme agli altri vaccini infantili, entro il primo anno di età), si stima che l’epatite B colpisca ancora il 5% della popolazione mondiale: oltre 390 milioni di persone.

Data ultimo aggiornamento 16 aprile 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: antivirali, fegato, Guidotti, vaccini



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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