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Covid, nuovo farmaco inglese?
Molto rumore per (quasi) nulla


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di Agnese Codignola

Venendo dalla Gran Bretagna, la notizia si potrebbe intitolare, con le parole di Shakespeare, Molto rumore per (quasi) nulla. È bastato infatti che una testata autorevole come il Guardian raccontasse di una delle tante sperimentazioni in corso, perché moltissimi media italiani la rilanciassero con numerose imprecisioni, e come se si trattasse di una novità di rilievo, di un nuovo farmaco che, al contrario, non c’è (e non è neppure un farmaco in senso stretto). Il giornale britannico, infatti, ha parlato della sperimentazione in corso di un cocktail di anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena). dell’azienda AstraZeneca che, se dovessero passare il vaglio dei test clinici, potrebbero aggiungersi a quelli già approvati negli Stati Uniti: uno di Lilly, e un cocktail di due anticorpi di Regeneron

Gli anticorpi monoclonali rappresentano una forma di immunizzazione passiva che può aiutare in caso di esposizione al virus e solo nelle prime fasi della malattia, perché quando il Covid si è aggravato, e si è innescata la grave reazione immunitaria, ciò che serve non è fermare il virus come fanno i monoclonali, ma intervenire sull’infiammazione. Inoltre sono sostanze molto costose (per i tre approvati si va dai 1000 ai 3000 dollari circa a dose), da somministrare da parte di personale specializzato, e che possono indurre allergie. Come se ciò non bastasse, si tratta di una terapia che esaurisce il suo effetto entro pochi mesi, perché l’organismo a poco poco li degrada.
Ciò spiega perché, come ha scritto il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al tema, negli Stati Uniti non stiano affatto avendo il successo che si pensava, e giacciano in gran parte inutilizzati nei frigoriferi degli ospedali: in media, i centri che ne dispongono ne stanno utilizzando solo il 10% delle scorte.

Nel caso in questione, la miscela (chiamata per ora AZD7442) dovrebbe essere data entro 8 giorni dall’esposizione al virus, e in due dosi. Per ora sono stati trattati 10 pazienti: un numero che, da solo, aiuta a capire come l’entusiasmo sia assolutamente prematuro. La stessa azienda prevede di non essere pronta prima del mese di aprile.
Lo studio sarà portato avanti in un centinaio di centri e uno dei rami sarà dedicato alle persone che, per motivi quali la concomitanza di altre malattie come il cancro o l’AIDS, l’assunzione di specifiche terapie, o la presenza di immunodepressioni di diverso tipo, non possono essere vaccinate, o sono comunque esposte a rischi particolari.

Gli anticorpi monoclonali di AstraZeneca sono infine solo uno tra i diversi monoclonali in sperimentazione: ce ne sono almeno una decina in corsa, ma tutti risentono delle stesse limitazioni e sono con ogni probabilità destinati a restare un prodotto di nicchia, talvolta risolutivo, ma per situazioni molto specifiche.
Non è certamente un caso se una delle società scientifiche statunitensi più accreditate, la Infectious Society of America, nelle sue linee guida si sia espressa CONTRO un utilizzo del primo monoclonale approvato, quello della Lilly, come terapia di routine.

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Nella foto dell’agenzia iStock, simulazione grafica di anticorpi

Data ultimo aggiornamento 27 dicembre 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Caccia agli anticorpi di chi ha sconfitto il coronavirus


Tags: anticorpi monoclonali, AstraZeneca, coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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