Questo sito utilizza cookies tecnici per l'analisi del traffico, in forma anonima e senza finalità commerciali di alcun tipo; proseguendo la navigazione si acconsente all'uso dei medesimi Ok, accetto

Continuo a dire "sì" alla vita

di Katia Casasola

Oggi ho 58 anni e sono una roccia, a volte fragile. Anche alle rocce capita. Nel 2004 mi è stata diagnosticata la sclerosi multipla primaria progressiva, una sentenza drammatica, atroce e senza appello. C’è stato un momento (forse anche più di uno) in cui avrei voluto soltanto sprofondare nell’abisso di angoscia e depressione verso il quale la sofferenza ti spinge ogni giorno. Sono felicemente ancora in piedi (si fa per dire) su una sedia a rotelle, ma questo è soltanto un dettaglio dell’esistenza che ho scelto di vivere, comunque, portando nello zaino sulle spalle la mia malattia a “spasso”. Non le ho permesso di prendersi tutto, i miei spazi, la libertà che tanto faticosamente avevo costruito sino alla scoperta della sua esistenza. Uno strano ospite, al quale non potevo sbattere la porta in faccia, trattarlo male rischiando di farlo arrabbiare. Dovevo accoglierlo e conviverci pacificamente. Per sempre.

In gioventù, ora con il senno di poi lo confermo, avevo già qualche sintomo di sclerosi. Allora, però, nessuno specialista osava pensare cosi “in grande”. Dolori al ginocchio si manifestavano all’improvviso e si dileguavano semplicemente con il trascorrere dei giorni, facendo pensare alla presenza di una forma ereditaria di artrite. I medici consigliavano massaggi e niente di più serio. In effetti il mio problema non poteva destare particolari preoccupazioni: andava e veniva come fanno tanti ospiti in un albergo.

Sono nata a Trieste, mio padre prestava servizio alla polizia di frontiera, successivamente ci siamo trasferiti a Udine, dove ho frequentato l’Iniasa, una scuola professionale, determinata a diventare sarta. Ho realizzato il sogno di cucire con le mie mani abiti di qualunque foggia in una bottega di proprietà, ancora aperta in viale Trieste. Tutto questo mentre negli anni migliori della giovinezza, l’ospite di cui non conoscevo nome né provenienza stava già pianificando di trasferirsi nel mio corpo definitivamente. Lavorando curva sul tavolo, immaginavo che i dolori lancinanti alla schiena fossero una banale conseguenza delle posizioni scomode che assumevo per cucire. A volte, però, mi capitava di perdere la sensibilità alle dita e di non riuscire neppure a sentire l’ago sui polpastrelli. Il tracollo era vicinissimo, come pure la fine della mia professione.

Di li a poco ho perso temporaneamente la vista. Un giorno ho aperto gli occhi e la stanza da letto mi appariva come sott’acqua, offuscata e tremolante. Questa terribile e scioccante condizione, ovvero l’infiammazione del nervo ottico (tra le più comuni avvisaglie della sclerosi multipla), è scomparsa in un mese circa, senza l’aiuto di cortisonici. Il neurologo mi ha prescritto allora l’esame della rachicentesi. Ebbene l’esito non poteva che essere quello più temibile e inquietante. Avevo la sclerosi multipla. Non c’erano più dubbi, anzi di dubbi e incertezze ce n’erano sin troppe. Perché la prima domanda che mi son fatta è stata: Come sarò domani? Cosa potrò fare?

Dormivo, o meglio mi sono lasciata andare per una settimana intera sul letto. Non volevo uscire, non volevo mangiare, volevo soltanto riavere indietro la salute. Per mia fortuna da molti anni praticavo la meditazione e il mio gruppo si è rifiutato di trattarmi come una “triste e inconsolabile malata”, insegnandomi a guardare oltre l’ostacolo. Le persone e l’ambiente familiare sono essenziali per ritrovare l’entusiasmo e vivere, sono le prime medicine che ogni paziente dovrebbe avere a disposizione come antidoto al sentimento di infelicità perenne, vittimismo, talvolta rabbia contro tutto e tutti.

La mia scelta terapeutica è stata piuttosto forte, ho deciso di non considerare alcun genere di farmaci (cortisonici e immunosoppressori) per intraprendere invece un percorso diverso, sostanzialmente legato all’ascolto del corpo. Non posso né voglio dire che questa sia la soluzione migliore per tutti, mentirei (alcuni seguono la medicina tradizionale e non cambierebbero strada), è solo la mia soluzione. Ho modificato drasticamente l’alimentazione, seguendo per circa un anno dieta macrobiotica strettissima (tanti cereali e tante verdure), in seguito ho ripreso a consumare carne e pesce “al bisogno”. Mi aiuto con integratori di sali minerali e con la vitamina D, da qualche tempo utilizzo cannabis in olio per uso terapeutico. Cerco di centellinarlo e neppure tutti i giorni, assumendone poco, prima di dormire per riuscire a riposare senza dolori.

Ho rifiutato le medicine ma mi sono sottoposta a un intervento chirurgico. Venuta a conoscenza del potenziale coinvolgimento e correlazione nella sclerosi multipla di un disturbo vascolare, l’insufficienza cerebrospinale venosa cronica (o Ccsvi), un restringimento dei grossi vasi sanguigni del collo e del torace che irrorano il sistema nervoso centrale, mi sono operata all’Ospedale di Catania. Ho tentato, e in pochi giorni sono ritornata a casa con alcuni (e per me importanti) miglioramenti: meno dolori, in particolare, al piede destro e alle mani. Ma anche questa è soltanto la mia esperienza, certo non si può ritenere valida e giusta per ogni malato di sclerosi multipla.

Nonostante la comparsa della malattia ho trovato le energie per assistere, con mio fratello, i miei genitori: mia mamma prima, mio padre, invece, qualche anno più tardi, affiancata da una collaboratrice domestica. Guido la mia auto, mi sposto nei tracciati più difficili su una carrozzina motorizzata, mentre mi faccio aiutare per i lavori di casa. Amo la mia indipendenza e anche la solitudine, a volte, per apprezzare quello che ancora la malattia non è riuscita a prendersi: la forza, la determinazione, la voglia di vivere che non passa. Per fortuna.

Sola, comunque, non sono mai. Mi sono attivata per aiutare persone che hanno i miei stessi problemi, cerco di far valere i loro diritti su una burocrazia spesso più crudele della malattia. E ho adottato un bellissimo cane, Asia, la mia più fedele amica e la mia guardia del corpo.

Continuo a dire “si” alla vita: per quanta sofferenza porti, è un dono meraviglioso. Non guardiamola dal buco di una serratura, ma da una finestra spalancata baciata dal sole.

(testimonianza raccolta da Maria Santoro)

Data ultimo aggiornamento 28 aprile 2017
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: meditazione, sclerosi multipla



Warning: Use of undefined constant lang - assumed 'lang' (this will throw an Error in a future version of PHP) in /var/www/nuevo.assediobianco.ch/htdocs/includes/gallery_swiper.php on line 201

Notice: Undefined index: lang in /var/www/nuevo.assediobianco.ch/htdocs/includes/gallery_swiper.php on line 201

Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

Chiudi

Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

VAI ALLA VERSIONE COMPLETA