PRIMO VIA LIBERA
Un semplice test del sangue per cercare
le tracce precoci dell’Alzheimer

di Agnese Codignola
Si chiama Lumipulse, e la sua approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense, avvenuta lo scorso 16 maggio, potrebbe rappresentare l’inizio di una svolta. Per la prima volta, infatti, l’agenzia regolatoria americana approva un test da eseguire sul sangue (sul plasma, in realtà, cioè la parte liquida) per identificare la demenza di Alzheimer quando è ancora nelle fasi inziali, e non è affatto facile capire, solo dai deficit di memoria, se si tratti di un normale decadimento cognitivo dovuto all’età o, appunto, di Alzheimer o di qualcosa di diverso.
Fino a oggi, la certezza della diagnosi arrivava solo dalla combinazione di una serie di test sulle performance cognitive più una tomografia a emissione di positroni o PET, oppure un’indagine specifica sul liquido cefalorachidiano o liquor (il fluido intorno al cervello e al midollo spinale), che richiede una puntura lombare. La diagnosi giungeva quindi solo dopo analisi costose, non prive di rischi ed effetti collaterali e non accessibili a tutti.
Se un esame del sangue riuscisse a fornire risposte certe, molto potrebbe cambiare per una malattia la cui incidenza è in flessione, ma i cui numeri assoluti, in tutto il mondo, sono in aumento, con l’avanzare dell’età. Si stima infatti che oggi vi siano 32 milioni di persone nel mondo colpite da questa forma di demenza, ma si ipotizza che nel 2050 il numero potrebbe essere triplo.
Tuttavia, è bene non farsi prendere da entusiasmi eccessivi, perché non tutti i neurologi sono convinti dell’affidabilità del test del’azienda giapponese Fujirebio, e perché per il momento l’esame viene considerato come potenzialmente utile non tanto tra gli specialisti, quanto dai medici di base, che potrebbero fare una sorta di screening, per poi inviare eventualmente ai neurologi i casi sospetti.
Ma come si è arrivati al via libera della FDA?
IL CAMMINO PER L’APPROVAZIONE - La storia dei dosaggi di specifiche proteine nel sangue che possano funzionare da indicatori dell’Alzheimer è molto lunga: sono decenni che laboratori di ricerca e aziende propongono varie sostanze "candidate". A vincere è stato un test che analizza il rapporto tra due molecole, che varia a seconda che siano presenti o meno i due tratti tipici dell’Alzheimer: le placche di proteina beta amiloide e le fibrille di proteina tau.
Le prime sono depositi di una proteina la cui funzione non è certa, ma che viene secreta probabilmente a scopo difensivo e che, se in eccesso, può depositarsi e dare luogo appunto alle placche, esterne alla cellula nervosa.
Va sempre ricordato che la beta amiloide è presente in tutte le persone, e non solo in chi soffre di Alzheimer. Va anche considerato che le placche si trovano anche in soggetti senza demenza e che, viceversa, alcuni alzheimeriani non hanno affatto placche di beta amiloide. Questa scarsa specificità ha sempre complicato la ricerca di marcatori basati sulla beta amiloide, e costretto a ricorrere agli altri test (la PET e l’esame del liquor) che, tuttavia, certificano solo una malattia avanzata. Da qui la ricerca di marcatori più precoci, e affidabili.
Poi si è scoperto che, prima di essere matura, la beta amiloide rilasciava nel sangue alcuni suoi frammenti, tra i quali uno chiamato 42 (β-amiloide 1-42), e che la loro concentrazione variava in funzione dello stato di avanzamento della malattia. Per questo si è pensato di affidarsi a loro. Tutti gli studi effettuati hanno però portato alla conclusione di quelli precedenti: la specificità non era sufficiente.
A quel punto ci si è rivolti anche al secondo tratto distintivo della malattia, e cioè le fibrille di proteina tau.
Queste ultime sono più specifiche, si formano all’interno della cellula e, come la beta amiloide, rilasciano nel sangue alcune forme intermedie, tra le quali quelle "fosforilate" (cioè modificate chimicamente in seguito all’aggiunta di un gruppo fosforico), o pTau217. Studi durati anni hanno portato a dimostrare che, unendo i due indicatori, le cui variazioni sono interdipendenti, probabilmente si sarebbe potuto arrivare a un test affidabile, che avrebbe indicato la presenza delle placche nel cervello. E così è stato, stando allo studio che ha portato al via libera della Food and Drug Administration.
Secondo quanto riferito dai neurologi dell’Indiana School of Medicine di Indianapolis (Stati Uniti) - che hanno coordinato il lavoro, svolto insieme ai colleghi della Mayo Clinic di Rochester, della Lund University svedese, dell’Università della California di San Francisco e della Columbia University di New York - nell’ambito dello studio 499 persone con un deficit cognitivo sono state sottoposte alla PET, all’esame del liquor, e Lumipulse.
Il risultato è stato che, nel 91,7% dei casi, la positività riscontrata con l’esame del sangue è stata confermata con uno degli altri esami, e la negatività lo è stata nel 97,3% dei casi. Meno del 20% degli esami del sangue ha portato a risultati non interpretabili.
Sulla base di questi dati, la FDA ha concesso l’iter di approvazione rapida o Breakthrough Device Program, meno scrupoloso di quelli classici, e anche per questo non tutti gli esperti sono convinti: secondo molti neurologi, sarebbe stato meglio aspettare di avere numeri più solidi.
In realtà, gli studi confermativi si stanno moltiplicando. Tra questi ne va citato uno italiano, pubblicato lo scorso gennaio sulla rivista scientifica Fluids and Barriers of CNS, e condotto su 300 persone dai ricercatori dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, che ha mostrato anch’esso l’affidabilità del sistema Lumipulse. Lo stesso ha fatto nei giorni scorsi un altro studio, giapponese, su una settantina di persone.
I DUBBI - Le perplessità nascono dal fatto che, ancora una volta, si assume che tutto o quasi dipenda dalla formazione delle placche di beta amiloide, anche se gli studi degli ultimi anni hanno mostrato che non basta eliminarle per recuperare le funzioni perse, e che le placche possono essere presenti per vari motivi. La discussione riprende quindi in parte quella esistente sui farmaci, e ciò spiega perché si pensi più a uno strumento da utilizzare come primissimo screening in caso di dubbi, per poi passare ad approfondimenti più convalidati come la serie di immagini fornite dalla PET, che danno un’idea complessiva delle condizioni del cervello.
Per questo diversi neurologi chiedono che non sia sufficiente un responso positivo di Lumipulse per fare una diagnosi, perché ci sono stati molti falsi positivi e molti falsi negativi. L’affidabilità non sarebbe dunque così elevata.
Probabilmente l’importanza di questo test risiede nell’aver aperto una nuova strada, che forse vedrà nuovi e più accurati protagonisti nei prossimi anni. In ogni caso, disporre di un esame pochissimo invasivo, e sicuramente più economico di quelli standard potrebbe essere di aiuto, almeno per uno screening iniziale: nei prossimi anni si capirà quanto.
Intanto la Alzheimer’s Association statunitense, che riunisce esperti e associazioni di pazienti, ha reso note le prime linee guida dedicate ai test nel sangue (oltre a quello approvato, molti altri sono allo studio o prossimi all’approvazione). Ne seguiranno altre, perché ogni situazione deve essere affrontata tenendo presente le specificità, ma il segnale è chiaro: la comiunità dei neurologi e quelal dei pazienti ci credono.
Data ultimo aggiornamento 10 agosto 2025
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