Questo sito utilizza cookies tecnici per l'analisi del traffico, in forma anonima e senza finalità commerciali di alcun tipo; proseguendo la navigazione si acconsente all'uso dei medesimi Ok, accetto

Alzheimer: errori, omissioni, frodi scientifiche.
Ecco perché non c’è ancora una vera cura

Le cellule della microglia (sistema immunitario: in rosso) hanno un ruolo importante nell’insorgenza della malattia di Alzheimer (foto iStock)

Contro l’Alzheimer, come sa bene chiunque abbia un malato in casa, gli strumenti farmacologici a disposizione sono pochi, e soprattutto non in grado di incidere realmente sull’andamento della malattia. Nel 2021, però, due aziende consorziate hanno ottenuto l’approvazione per il primo di una potenziale nuova classe di terapie: gli anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena). diretti contro la proteina beta amiloide, presente in quasi tutti i malati in forma di placche. Sembrava fatta, e invece una parte rilevante della comunità scientifica è insorta, e quell’anticorpo, meno di due anni dopo, è stato ritirato dal mercato per insufficienza di vendite. Nel frattempo ne sono stati approvati altri due, ancora disponibili, che però si portano dietro gli stessi problemi. E cioè: scarsa o nulla efficacia, costi stellari, rischi elevati di sanguinamenti cerebrali.

Come mai? Com’è possibile che, nonostante l’enorme quantità di denaro impiegata nella ricerca, e il lavoro di migliaia di studiosi in tutto il mondo, non si sia arrivati a una vera cura, come invece è accaduto, nello stesso periodo (e a parità, più o meno, di investimenti), per il cancro? Eppure anche quella è una malattia che, come l’Alzheimer, è multifattoriale, si sviluppa nell’arco di decenni e può avere molteplici cause. A queste a ad altre domande come quelle relative alle ipotesi più innovative sulle cause e sui meccanismi dell’Alzheimer prova a fornire qualche risposta il libro di Agnese Codignola, collaboratrice di Assedio Bianco, appena uscito per Bollati Boringhieri, Alzheimer spa - storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è. 

Il fallimento - scrive Codignola - è da attribuire principalmente al fatto che si è pensato soltanto a sciogliere le placche di beta amiloide, anche se questo non comporta necessariamente un recupero delle funzioni cognitive, e anche se le stesse placche non sono presenti in tutti i malati. I dati lo hanno mostrato molto chiaramente, negli anni, ma si è andati avanti lo stesso. Inoltre l’insuccesso nella ricerca di terapie efficaci è dovuto anche a una serie di frodi scientifiche particolarmente drammatiche, viste le conseguenze. Come Assedio Bianco ha raccontato più volte, purtroppo questo malcostume negli ultimi anni si è diffuso o, forse, semplicemente, è stato scoperto più spesso di prima. I motivi sono chiari: i gruppi di ricerca sono costretti a pubblicare molto, troppo, a ritmi forsennati, per ricevere finanziamenti. Talmente tanto che qualche ricercatore imbroglia, e ritocca i dati, pur di restare nel gotha della sua materia. E questo è successo diverse volte, nell’ambito dell’Alzheimer, come si è scoperto negli ultimi mesi. Tutto ciò, in molti casi, ha guidato la ricerca verso una strada sbagliata, come racconta Codignola nel libro, ricostruendo vicende che a tratti sembrano un thriller frutto della fantasia di qualche scrittore. Purtroppo, è tutto vero, e alcuni dei ricercatori più disonesti sono finiti in tribunale, o peggio. E a pagare sono stati i malati.

Tuttavia, il libro offre più di un motivo di speranza: avere sgomberato il campo da quell’ipotesi così dominante sta lasciando finalmente spazio a tutte le altre, che avevano sempre trovato orecchie distratte, quando non apertamente ostili. Virus, inquinamento, traumi, genetica e altro possono innescare la neurodegenerazione. E contro queste cause oggi esistono nuove cure in sperimentazione. E poi c’è la prevenzione, grazie alla quale, come abbiamo già raccontato su Assedio Bianco, adottando stili di vita corretti si può arrivare a evitare un caso su due.

Qui di seguito pubblichiamo un estratto del libro, che parla del possibile ruolo dell’inquinamento atmosferico nell’origine della malattia, raccontando al tempo stesso la difficile vita di una delle ricercatrici che più ci hanno creduto, una donna, Lilian Calderón-Garcidueñas.

 

I cani di Città del Messico

© Bollati Boringhieri Editore  

Nel 2022 a Città del Messico sono piovuti dal cielo uccelli morti. Un’evenienza sinistra, che si si era già verificata altre volte, in quella che nello stesso anno è stata dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la città più inquinata del mondo. Le cause più probabili di quegli insoliti fenomeni, secondo i veterinari, sono state più o meno sempre le stesse: l’inquinamento, e il conseguente disorientamento spaziale, oltre alle difficoltà respiratorie provocate dall’eccesso di contaminanti. 

Sotto quello stesso cielo, qualche anno prima, era nata e cresciuta Lilian Calderón-Garcidueñas, che lì aveva studiato per diventare anatomopatologa e che, dopo la laurea, aveva deciso di indagare sugli effetti dell’inquinamento sul cervello, partendo dai modelli che aveva a disposizione: i cani randagi. Ne aveva selezionato 40, metà dei quali nati e cresciuti in città, e gli altri in una cittadina a est, caratterizzata da un’aria particolarmente pulita, Tlaxcala. 

Ciò che aveva visto nelle autopsie di quegli animali l’aveva sconvolta, perché mentre i cervelli dei cani di campagna erano sani, quelli dei randagi di città presentavano i chiari segni di una neurodegenerazione precoce, palese già nei cuccioli di otto mesi. 

Dopo quei risultati, capire che cosa succedeva nel cervello degli umani era diventata la sua ossessione, e aveva quindi iniziato una raccolta di dati durata oltre 15 anni, sempre partendo, come per l’Alzheimer, dall’indagine sui cervelli delle persone decedute. Nel 2018, finalmente, aveva pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research quanto osservato in 200 cervelli di persone residenti in città, morte a un’età compresa tra gli 11 mesi e i 40 anni, e cioè che tutti i cervelli tranne uno avevano le stigmate dell’Alzheimer, mentre i nove cervelli di controllo, di persone della stessa età, e quindi giovani e giovanissime, residenti in aree più salubri, non mostravano nulla del genere. Inoltre, coloro che avevano (il gene, ndr) APOE4, ancora una volta, erano più a rischio. 

Questi dati mostravano un’associazione, ma non l’esistenza di un nesso causale. Tuttavia, furono tra i primi a suggerire che l’inquinamento atmosferico potesse avere effetti diretti sul cervello. 

Ci vollero anni prima che arrivassero conferme, e ancora oggi le ricerche procedono con lentezza, non solo perché, come in tutti gli studi sull’Alzheimer, occorrono decenni per seguire la malattia, ma anche perché, in questo caso, la situazione è ancora più complicata rispetto a quella dei traumi sportivi o delle infezioni virali. 

Innanzitutto, infatti, la parola “inquinanti” riassume un coacervo di centinaia di sostanze diversissime, tra le quali ossidi d’azoto e di zolfo, l’anidride carbonica e il monossido di carbonio, e poi piombo, ozono, metalli pesanti, idrocarburi, ammoniaca, polveri sottili (PM10 e PM 2,5) e così via, e stabilire il ruolo di ciascuno di essi, delle loro combinazioni e dell’effetto di accumulo nell’organismo è incredibilmente complicato. Inoltre, ciò che viene assorbito incrocia la vita delle persone, che in periodi di tempo così estesi possono cambiare quartiere o città. Per stabilire senza alcun dubbio l’esistenza di un rapporto causale, bisognerebbe conoscere in ogni momento l’esposizione ai singoli agenti, così come alle miscele, un compito quasi impossibile. Oltre a ciò, in genere chi vive nei quartieri più inquinati ha un livello più basso di scolarizzazione, un’alimentazione peggiore e un peggiore stile di vita, e anche queste sono tutte variabili che influiscono sul rischio di Alzheimer, come vedremo. Intervengono infine fattori ulteriori, come il fatto che l’inquinamento può favorire alcune infezioni virali che sono, a loro volta, possibili fattori scatenanti. 

Tuttavia, anche al netto delle mille complicazioni di questi studi, i dati sono ormai così convincenti che nessuno dubita dell’aumento di rischio associato all’aria malata respirata in modo continuativo. 

Tra le centinaia di ricerche condotte negli ultimi anni, ve ne sono almeno una decina, svolte in tutti in quasi tutti i continenti, che hanno portato a dati chiari. Ciò che emerge sempre – da analisi che hanno riguardato migliaia di persone nelle più diverse situazioni - è una evidente relazione tra la qualità dell’aria e le performance cognitive in età avanzata, così come con le patologie neurodegenerative in generale, e con Alzheimer, Parkinson e sclerosi laterale amiotrofica in particolare. Per esempio, secondo uno studio condotto in tutti gli Stati Uniti, e pubblicato sulla rivista PNAS nel 2022, nel quale i ricercatori della New York University hanno messo in relazione le concentrazioni di alcuni degli inquinanti principali (anche agricoli) con l’incidenza delle demenze, la sovrapposizione è impressionante, soprattutto per alcune delle sostanze e per le polveri più sottili, e quindi più insidiose, le PM2,5

Una metanalisi che ne ha preso in considerazione 51 condotti in America del Nord, Europa, Australia e Asia, uscita nel febbraio 2023 sul British Medical Journal, ha fatto emergere anch’essa una chiara correlazione tra la quantità di PM2,5 e le demenze: ogni volta che la concentrazione delle prime, in un anno, cresce di 2 microgrammi per metro cubo di aria, l’incidenza delle seconde aumenta del 4%. 

Il legame, poi, spiegherebbe, in parte, i dati sul calo dell’incidenza nei Paesi più sviluppati. Secondo gli epidemiologi, infatti, c’entra anche il fatto che l’aria, in molte città occidentali o comunque dei paesi più ricchi, negli ultimi decenni è migliorata, grazie alle modifiche nella composizione di certi combustibili, allo spostamento degli impianti industriali fuori città e alla riduzione di alcune emissioni. Al contrario, in numerosi Paesi a un livello di sviluppo medio o basso, che però stanno vivendo forti fenomeni di urbanizzazione e che, non di rado, fanno massiccio ricorso a fonti fossili di energia, la qualità dell’aria è quasi sempre peggiorata, come dimostrano le megalopoli indiane, sub-sahariane e cinesi. Proprio in quelle aree, soprattutto nei giganteschi conglomerati urbani, l’incidenza dell’Alzheimer è in aumento.

© Bollati Boringhieri Editore  

Gli aggiornamenti scientifici e non saranno riportati regolarmente sulla pagina facebook del libro, che ha la stessa denominazione: Alzheimer spa - storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è

A.B.
Data ultimo aggiornamento 3 dicembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: recensioni



Warning: Use of undefined constant lang - assumed 'lang' (this will throw an Error in a future version of PHP) in /var/www/nuevo.assediobianco.ch/htdocs/includes/gallery_swiper.php on line 201

Notice: Undefined index: lang in /var/www/nuevo.assediobianco.ch/htdocs/includes/gallery_swiper.php on line 201

Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

Chiudi

Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

VAI ALLA VERSIONE COMPLETA