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Luci e ombre del plasma
la terapia che tutti cercano


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In un momento in cui tutto il mondo sta cercando la terapia specifica per Covid19, la cura con il plasma iperimmune, più di altre, sta suscitando scalpore, aspettative e speranze.
Premesso che il farmaco miracoloso non esiste, abbiamo parlato dei punti di forza e delle criticità del plasma iperimmune con il professor Giorgio Lambertenghi Deliliers, ematologo di grande esperienza, già professore di Malattie del Sangue presso l’Università di Milano e responsabile di Medicina Generale del Polo Capitanio dell’Istituto Auxologico Italiano, e con il dottor Luca Varani, direttore di laboratorio all’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona, che da tempo lavora sulle terapie immunologiche di patologie virali ed è tra i promotori di un Consorzio Europeo per la plasmaterapia Covid19.
Ecco dunque ciò che è emerso dal colloquio con i due esperti e le risposte da loro condivise su questo argomento così complesso e “spinoso”. 

Prima di tutto, che cos’è il plasma? 

«Il plasma - spiegano gli esperti - è la componente liquida del sangue. Formato soprattutto da acqua, il plasma contiene molte sostanze tra cui proteine, molecole organiche, ioni, sostanze gassose, oligoelementi e vitamine». 

Cos’è il plasma iperimmune e chi lo può donare?

«Il plasma iperimmune è il plasma dei pazienti che sono guariti dal COVID-19. Quando si guarisce da una malattia infettiva, vengono prodotti anticorpi specifici contro l’agente responsabile. Nel caso di SARS-CoV-2 (il coronavirus che provoca il COVID-19), come anche ad esempio per l’epatite B, l’organismo può produrre anticorpi neutralizzanti, che sono quelli che ci difendono dal virus, ma anche anticorpi non neutralizzanti. Ciò dipende dalla parte del virus verso cui sono indirizzati.
Allo stato attuale delle conoscenze si può dire che, nel caso di SARS-CoV-2, alcuni anticorpi prodotti contro la regione del virus che gli permette di attaccarsi alle cellule, sono neutralizzanti. Altri anticorpi, diretti invece verso altre parti del coronavirus, non sono in grado di bloccarlo, ossia di neutralizzarlo.   
Il plasma iperimmune, per essere efficace, deve essere donato solo da coloro che hanno un elevato livello di anticorpi neutralizzanti.
Le raccomandazioni della FDA (Food and Drug Administration, l’ente che si occupa della regolamentazione dei farmaci negli Stati Uniti) prevedono che il plasma del donatore debba essere in grado di neutralizzare il virus in esperimenti di laboratorio anche se diluito fino a 160 volte. Sembra, però, che solo il 20% dei guariti risponda a questa caratteristica, indispensabile per una cura efficace. Non si sa poi ancora in realtà se, anche altri  componenti del plasma, a prescindere dagli anticorpi neutralizzanti in senso stretto, siano utili per sconfiggere il virus. Esiste, infatti, anche questa possibilità». 

Ci sono altre caratteristiche indispensabili alle quali un donatore debba rispondere per poter donare? 

«Deve essere guarito dal virus, cioè deve avere un doppio tampone negativo. Deve essere inoltre sottoposto a tutti gli esami previsti per i donatori di sangue, che devono ovviamente risultare nella norma.  In più, deve risultare negativo ad alcuni test virali aggiuntivi, come per esempio parvovirus, epatite A, epatite E e altri patogeni infettivi». 

È già stata utilizzata questa cura in passato?  

«Si tratta di una terapia nota e già utilizzata anche per Ebola e per la SARS, oltre che dai cinesi per il virus SARS-CoV-2, responsabile della malattia COVID-19». 

Quali i punti critici? E come prosegue la strategia di cura? 

«Si tratta prima di tutto di una cura in sperimentazione, per quanto riguarda COVID19, e non ancora di una terapia certa, anche se i dati preliminari (che si riferiscono a qualche decina di pazienti) sono indubbiamente incoraggianti.
Proprio in questi giorni inoltre, in Italia l’Istituto Superiore di Sanità e AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) si sono impegnati nello sviluppo di uno studio nazionale comparativo (randomizzato) e controllato per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti da COVID-19, secondo criteri unici e standardizzati. Il plasma delle persone guarite viene impiegato per trattare, nell’ambito di questo studio prospettico, malati affetti da forme severe di COVID-19. Allo studio partecipano diversi centri, a cominciare da quelli che sin dall’inizio di marzo ne stanno valutando a livello locale l’efficacia. Questo progetto consentirà di ottenere evidenze scientifiche solide sul ruolo che può giocare l’infusione di anticorpi in grado di bloccare l’effetto del virus e che sono presenti nel plasma di pazienti guariti dall’infezione da nuovo Coronavirus.
Resta poi il problema pratico e concreto, dovesse davvero rivelarsi una cura efficace su larga scala, della logistica per la raccolta e distribuzione del plasma da donatori».

Come trasformare una donazione di un singolo paziente in un farmaco facilmente disponibile e utilizzabile per più pazienti e in tutti i momenti? Come renderlo una cura disponibile per coloro ne abbiano bisogno? 

«Ciò può avvenire tramite tecnologie di biologia molecolare che mirano a isolare gli anticorpi neutralizzanti, scoprirne la sequenza proteica e arrivare, infine, a sintetizzare molecole equivalenti, chiamate anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena).. È una tecnologia già in uso e sono ben 64 gli anticorpi monoclonali attualmente approvati come farmaco. Tra i tanti: la produzione di anticorpi contro l’Ebola o il Rituximab, utilissimo nella cura di alcune malattie come i tumori del sangue».

Data ultimo aggiornamento 14 maggio 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: 
Un altro bersaglio anti-Covid: le proteine del "complemento"
Clorochina contro coronavirus: un successo solo mediatico


Tags: AIFA, coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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