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Umberto Veronesi: «La mente può fare tutto»

L’oncologo di fama internazionale, morto l’8 novembre, era anche uno studioso attento dei rapporti fra la psiche e il resto dell’organismo. La testimonianza di MariaGiovanna Luini, senologa e scrittrice, autrice del blog "Mente e corpo"

Faccio ancora fatica. Conosco le fasi del lutto e le ho vissute in altri momenti della vita, ma essere consapevole aiuta solo in parte. In questi giorni provo a concentrarmi: Umberto Veronesi è morto, almeno nella forma fisica. Per quanto ci provi, non riesco a tenere fermo il pensiero più di un secondo perché sembra inaccettabile e la mente lo butta fuori. Non che mancassero le informazioni: sapevo tutto, ero a conoscenza dell’età anagrafica e di ciò che normalmente comporta. Eppure ho condiviso in pieno la frase sussurrata da Donata, la sua addetta stampa, quando insieme alla famiglia abbiamo visto entrare la bara a Palazzo Marino: «Mi rendo conto che credevo davvero che fosse eterno». La formazione medica e il percorso spirituale mi impedivano di tirare fuori a parole la medesima verità, ma vale anche per me. Il lutto è questo: cuore e mente devono mettersi d’accordo perché anche il corpo, poi, si adegui a una nuova realtà, a un’assenza, a un’evoluzione verso un’esistenza priva di una persona che prima la riempiva. La psiche ha sempre qualche problema nell’affrontare un “prima/dopo”, e la difficoltà simile hanno le emozioni: ecco perché spesso accade che insorgano sintomi anche fisici in corrispondenza di un lutto o di un forte stress.

Umberto Veronesi non sarebbe mai stato capace di considerare la malattia il problema di un pezzo di corpo: era chirurgo, un grande chirurgo con cui ho avuto il privilegio di operare, ma mai ha creduto che quei tumori che avrebbe voluto sconfiggere totalmente fossero solo questione fisica. Quando diceva che sia facile togliere un tumore dal corpo, ma difficilissimo asportarlo dalla mente, intendeva questo: una malattia tumorale colpisce il corpo e si insinua nella mente, e il cancro (parola che peraltro detestava) non è solo un accumulo di mutazioni del DNA. La malattia tumorale è un’esperienza fisica e psicologica, emotiva e di relazione: in tutte le fasi travolge, permea corpo e mente. E Veronesi andava più in là: nella cura meticolosa della qualità di vita dei pazienti non c’era solo la grande ed elegante empatia dell’uomo che da bambino ha dovuto porsi il problema del dolore e chiedersi quale senso avesse, ma c’era la consapevolezza che in qualche modo lo stato psicofisico influenzi il benessere del corpo.

«La mente può fare tutto: controlla la tua mente e anche il corpo risponderà»: quante volte lo ha detto per spiegarmi che non esiste separazione tra mente e corpo ma un’unità, una convivenza fluida e inscindibile tra due aspetti del medesimo essere. E ancora: di fronte a un dolore fisico insisteva nell’affermare che i farmaci fossero fondamentali e insostituibili, ma l’amore, la consapevolezza di potere usare la mente per restare in equilibrio non fossero mai da trascurare. Le donne sanno uscire da una malattia, o sanno conviverci proseguendo nella propria vita, grazie all’enorme capacità di amare: l’ha ripetuto migliaia di volte, e ci credeva. L’amore delle donne è un motore per la salute propria e altrui, è energia creativa e salvifica, è una boa cui aggrapparsi, è una potenza misteriosa che può determinare la migliore o peggiore risposta a terapie e interventi chirurgici. Cosa è questo, se non cooperazione mente-corpo? Cosa è se non energia dell’anima o della psiche (scegliete la parola che preferite) che influisce sullo stato dell’organismo?

Chiedere a Umberto Veronesi se il dolore facesse venire il cancro significava ricevere due risposte: la prima era «no», la seconda era molto più articolata e differente. Diceva che non è il dolore in sé a provocare mutazioni nel DNA, ma forse un modo patologico di affrontare il dolore: lo abbiamo scritto insieme nel libro “Oltre il dolore” (Cairo, 2014) in cui la riflessione sul dolore ha reso evidentissima la posizione del Professore sul grande impatto della mente sullo stato del corpo fisico. Rimuovere dolori, desideri, passioni, amore, frustrazione, rabbia significa creare i blocchi, e i blocchi non sono mai sani.

Umberto Veronesi mi ha insegnato l’enorme importanza dell’ascolto della storia intera dei pazienti, e da questo ascolto abbiamo compreso che quasi mai una malattia sembra del tutto casuale. Nei bambini, ecco, in loro sì: quali blocchi possono avere, quali compressioni emotive, quali comportamenti pericolosi, quale tempo per esporre il proprio DNA alla mutazione? Il mistero della malattia dei bambini fu per lui e per me un abisso inspiegabile, anche se la nostra convivenza professionale ebbe la ricchezza profondissima della grande diversità: credo che esista Dio, uso medicina convenzionale e anche olistica, lui no. Eppure neanche io mi spiego la morte dei bambini: conosco le teorie e penso che la reincarnazione sia la scelta di affrontare prove importanti, ma l’emotività di fronte al dolore dei bambini mi travolge. 

Aiutare la gente malata di cancro era un impegno totalizzante: lo era per Umberto Veronesi e per tutti coloro che hanno lavorato nel suo staff più stretto. Non avrebbe mai accettato un collaboratore e/o una collaboratrice tecnicamente bravissimi ma privi di empatia: l’ho visto arrabbiato poche volte, e quasi sempre il motivo era la mancanza di empatia e comunicativa di un medico o un infermiere nei confronti di un paziente. Non era una scelta formale, di facciata, di un uomo che era arrivato a fondare un istituto di eccellenza internazionale (il suo Istituto Europeo di Oncologia IEO, a Milano): era la certezza che non si potesse dire di avere curato qualcuno solo con i mezzi della chirurgia, della radioterapia, della farmacologia. La gente si cura con l’amore, si cura con le parole, si cura con il sorriso, si cura con la pazienza. Perché, appunto, mente e corpo cooperano e sono ugualmente fondamentali. Anche quando il paziente è antipatico (succede) o sgarbato: «Ricordati, Giovanna, che dietro una persona molto arrabbiata esiste sempre un grande dolore. Cerca quel grande dolore e non fermarti alla rabbia che ricevi addosso: solo così potrai curare».

Addio, Umberto. Di te muore il corpo fisico, ma l’anima è ancora qui. 

Data ultimo aggiornamento 26 novembre 2016
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Veronesi: «Curate l’anima, per curare il corpo»


Tags: dolore



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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