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Una tossina del pesce scorpione potrebbe curare le infezioni della fibrosi cistica

Una possibile soluzione per le frequenti e spesso gravi infezioni che colpiscono i malati di fibrosi cistica potrebbe arrivare da molto lontano: dal pesce scorpione (Sebastes schlegelii), capace di produrre una tossina che uccide alcuni batteri gram negativi come lo Pseudomonas aeruginosa (uno dei più frequenti, in questi malati) all’origine della maggior parte delle stesse.

I ricercatori dell’Ospedale universitario di Regensburg, in Germania, sono partiti da un’informazione nota: gli esseri umani e altri esseri viventi producono una proteina chiamata BPIbactericidal/permeability-increasing protein, sintetizzata dai neutrofili, capace di distruggere appunto i batteri G negativi. Tuttavia, in almeno metà dei malati, a causa di una mutazione, esistono anche autoanticorpi specifici anti BPI, che ne annullano l’efficacia. Per questogli autori hanno cercato tra altre specie, nel tentativo di individuare una BPI abbastanza diversa da sfuggire al riconoscimento degli autoanticorpi, ma ancora attiva, e l’hanno trovata, appunto, nel pesce scorpione. Come hanno poi riferito su eLife, i test in vitro hanno confermato la capacità di questa BPI di neutralizzare gli Pseudomonas presenti nei fluidi corporei dei malati, e hanno mostrato anche un’ottima attività antinfiammatoria. Ora i test proseguono sui primi modelli animali; se i risultati saranno quelli attesi, si potrà procedere con i primi esperimenti i malati. Nel caso si giungesse a una terapia a base di BPI di pesce scorpione, si potrebbero avere nuove opportunità per tutti, dal momento che le infezioni da Gram negativi sono molto diffuse, e sempre più difficili da contrastare con gli antibiotici tradizionali. Le BPI, infatti, distruggono i microrganismi attaccando la parete esterna, con un meccanismo diverso da quello di tutti gli antibiotici esistenti, e questo potrebbe rappresentare un indubbio vantaggio, tanto più prezioso quanto più aumenta la resistenza a questi ultimi.

 

A.B.
Data ultimo aggiornamento 9 agosto 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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