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Un anticorpo per
curare la psoriasi

Se i risultati appena pubblicati sul Journal of Allergy and Clinical Immunology dai ricercatori della Rockfeller University di New York saranno confermati, la terapia della psoriasi potrebbe essere a una svolta cruciale. L’anticorpo monoclonale BI 655066, al momento utilizzato solo in via sperimentale, sembra infatti in grado di far regredire stabilmente le lesioni cutanee tipiche di questa malattia, e potrebbe quindi rappresentare una nuova ed efficace opzione terapeutica.

L’anticorpo in questione riconosce una delle molecole associate alla formazione delle placche che compaiono sulla pelle di chi convive con la psoriasi, l’interleuchina-23 (IL-23) normalmente rilasciata durante i processi infiammatori. I ricercatori newyorchesi lo hanno somministrato mediante iniezioni in vena o sottocutanee a una trentina di pazienti con psoriasi di entità media o grave e hanno confrontato la sua efficacia con quella di un placebo. E’ stato così scoperto che questo anticorpo riesce a far regredire le lesioni dell’80% circa e che il suo effetto rimane stabile almeno delle 6 settimane successive al trattamento.

Gli effetti collaterali osservati nei pazienti trattati con l’anticorpo anti IL-23 sono risultati simili a quelli osservati nei pazienti che avevano ricevuto il placebo; per questo i ricercatori hanno concluso che non dipendono dall’anticorpo. Al momento, quindi, questa terapia sperimentale non sembra essere associata a effetti collaterali gravi, ad esempio quelli tipici dei trattamenti convenzionali basati sull’immunosoppressione. Prima che possa entrare nella routine del trattamento della psoriasi dovranno essere condotti altri studi, ma questi dati sembrano già indicare piuttosto chiaramente che l’interleuchina-23 potrebbe essere il bersaglio di cure efficaci contro questa patologia.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 7 luglio 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: citochine, interleuchina 23, psoriasi, terapia



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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