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Un anticorpo monoclonale bispecifico potrebbe curare il lupus più aggressivo

Una ragazza di 23 anni, affetta da un lupus eritematoso sistemico (SLE) particolarmente aggressivo e refrattario alle cure tradizionali, costretta dai dolori a restare sulla sedia a rotelle e a rischio di perdere la funzionalità renale, nonostante l’assunzione di cortisone e otto tipi di farmaci, potrebbe essere stata curata definitivamente. Il merito è di un anticorpo monoclonale bispecifico, cioè con due diversi bersagli (di solito ne hanno uno solo) chiamato teclistamab, già approvato per il mieloma multiplo.

L’anticorpo, infatti, è diretto contro le cellule progenitrici degli anticorpi, le plasmacellule o cellule B, delle quali blocca la maturazione. Grazie a questo, può fermare la proliferazione tumorale nel mieloma, ma può anche bloccare la produzione degli autoanticorpi che sono alla base del lupus.

La storia della ragazza è stata raccontata dai suoi medici, reumatologi dell’ospedale Charitè di Berlino, sul New England Journal of Medicine, e autorizza a sperare che si sia trovata una nuova strada terapeutica, almeno per i casi più gravi. Nello scorso mese di aprile la donna ha iniziato a essere trattata con l’anticorpo, dato off label, con un’infusione sottocutanea alla settimana per cinque settimane. I benefici sono iniziati già dopo la prima somministrazione: la funzionalità renale è tornata nella norma, così come i parametri del sangue, e anche le manifestazioni cutanee della malattia, e i dolori articolari sono gradualmente scomparsi, permettendo alla paziente di tornare a camminare. Alla fine della cura la ragazza non aveva più autoanticorpi nel sangue, nonostante avesse smesso da settimane di assumere il cortisone e le altre terapie precedenti, e la sua qualità di vita era straordinariamente migliorata. La paziente poteva quindi essere considerata in piena remissione, un risultato eccezionale, e impossibile da raggiungere con le cure classiche. Per il momento, per 16 settimane la situazione è rimasta stabile, ma occorrerà del tempo per capire se la remissione sia definitiva o temporanea.

Va detto che il teclistamab può comportare seri rischi di sviluppare la famigerata tempesta citochinica, ossia una reazione con un eccessivo rilascio di sostanze (le citochine) scatenata anche da altre terapie e da alcuni vaccini che può essere molto grave. Inoltre, il teclistamab, sopprimendo la produzione di anticorpi, espone i pazienti a gravi infezioni: la donna ha avuto una polmonite e una sinusite. Tuttavia i suoi medici erano preparati, perché questi problemi insorgono anche nei pazienti trattati per il mieloma, e sono stati quindi in grado di gestire la situazione. 

L’anticorpo, in definitiva, sembra in grado di ottenere effetti simili a quelli delle CAR-T, le terapie con linfociti geneticamente modificati che, messe a punto per curare alcuni tumori, si stanno studiando anche per il lupus. Ma le CAR-T prevedono una chemioterapia, e poi passaggi genetici e farmacologici rischiosi, lunghi e molto costosi, con tassi di successo ancora bassi, mentre il teclistamab richiede solo qualche iniezione sottocute, seguita da un monitoraggio.

Anche se è presto per parlare di un nuovo modo di affrontare il lupus, quanto visto nella ragazza tedesca ha suscitato un grande interesse, e sarà oggetto di accurati approfondimenti. Se tutto dovesse essere confermato, ci potrebbero essere conseguenze anche per altre gravi malattie autoimmuni.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 6 novembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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