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Tumori al cervello dei bambini: speranze
dalle terapie con le "CAR-T cells"

Immagine rielaborata al computer di cellule geneticamente modificate (agenzia iStock)

di Agnese Codignola

Lui, uno dei bambini più studiati al mondo, oggi ha cinque anni, e ogni due settimane ha un appuntamento cui non può mancare: quello con la somministrazione di una nuova dose di terapia. Deve continuare la cura, necessaria, per contrastare il tumore pericolosissimo che l’ha colpito quando di anni ne aveva solo due, interessando parti del cervello e del midollo spinale, chiamato glioma diffuso della linea mediana. All’epoca non c’era una cura per questa forma tumorale, fortunatamente rara, ma aggressiva, così come non ce ne sono neppure oggi. Ma anche grazie a questo bambino oggi c’è almeno una speranza: quella associata alle cosiddette CAR-T, da Chimeric Antigen Receptor- T lymphocytes, le terapie immunologiche che cercano di sfruttare le potenzialità del sistema immunitario in chiave antitumorale. In quel piccolo paziente, che ha ricevuto più di 70 somministrazioniil numero più alto mai infuso in un malato – sembra stia funzionando, e riuscendo a tenere sotto controllo il tumore. Ed è la prima volta che accade in modo così spettacolare in un tumore solido, perché finora le CAR-T sono state utilizzate (e approvate) solo nei tumori del sangue.

I LINFOCITI RINFORZATI - Ma che cosa sono e come funzionano, esattamente, le CAR-T? In sintesi, queste terapie sfruttano il fatto che le cellule tumorali esprimono sulla loro superficie alcune proteine specifiche dette antigeni, assenti nelle cellule sane. Questi marcatori possono legarsi a proteine altrettanto specifiche, detti recettori, come una chiave in una serratura. Il problema, però, è che i linfociti (cellule fondamentali del sistema immunitario) non hanno sulla propria superficie i recettori per questi antigeni tumorali (che non fanno parte della dotazione fisiologica del nostro sistema difensivo).
A supplire a questa assenza provvedono, però, le biotecnologie: grazie a trattamenti di ingegneria genetica, è infatti possibile inserire all’interno dei linfociti le informazioni genetiche affinché essi esprimano i recettori per gli antigeni del paziente. Una volta iniettati nel paziente, questi linfociti modificati, chimerici (da qui il nome), vanno a fissarsi sugli antigeni delle cellule tumorali, e lì esplicano la loro azione distruttrice in modo altamente specifico. Le cellule T chimeriche, che danno il nome alle CAR-T, sono appunto questi linfociti speciali.

Il procedimento di produzione delle CAR-T è del tutto personalizzato, e richiede strutture dedicate; per questo, è molto costoso e non disponibile ovunque. Di solito, si prelevano i linfociti normali del paziente e, parallelamente, si caratterizza, dal punto di vista genetico e molecolare, il suo tumore. Una volta identificato l’antigene migliore, si inserisce l’informazione nei linfociti, e li si fa moltiplicare fino ad averne quantità sufficienti. A quel punto i linfociti, diventati CAR-T, si reinfondono nel paziente, che nel frattempo è stato adeguatamente preparato in modo che vi siano meno reazioni immunologiche impreviste possibili, o interferenze di vario tipo. La preparazione prevede alcuni cicli di chemioterapia, per ottenere una situazione priva di cellule malate e di altri fattori che potrebbero influenzare l’effetto delle CAR-T.

Il procedimento è efficace, talvolta risolutivo, in alcuni tumori del sangue, anche se il tasso di successo è ancora attorno al 30%, e i rischi di una procedura così complessa e delicata sono non indifferenti. 

Finora, le CAR-T sono state riservate ai tumori del sangue o comunque non solidi, sia perché i linfociti, compresi quelli modificati, non riescono sempre a penetrare in profondità nelle masse tumorali, sia perché i tumori solidi di norma hanno molte più mutazioni di quelli liquidi, ed è quindi molto più difficile identificare un solo antigene tumorale che sia sufficiente a innescare una risposta adeguata. Il tasso di insuccessi o di effetti non soddisfacenti delle CAR-T sperimentate nei tumori solidi è sempre stato alto, nonostante i molti tentativi fatti (per esempio per i tumori del polmone o del fegato) e tuttora in corso. Per questo il caso del piccolo paziente autorizza a sperare. Ma vediamolo meglio.

BAMBINI SPECIALI - A seguirlo, presso il Seattle’s Children Hospital di Washington (Stati Uniti), è Nicholas Vitanza, uno degli oncologi con maggiore esperienza nelle CAR-T, che ha già trattato altri bambini con tumori non troppo diversi dal suo, e che pensa che la risposta del bambino, così forte e prolungata, sia del tutto atipica, così come la sua capacità di tollerare così tante procedure. Il valore di questa sperimentazione, che ha già assicurato tre anni di vita al bambino - ha spiegato l’esperto a un recente meeting a Filadelfia, di cui ha dato conto la rivista scientifica Nature, - è infatti anche quello di fornire informazioni preziose su ciò che potrebbe far funzionare le CAR-T nei tumori solidi di altro tipo, e di altri pazienti.

Al meeting, inoltre, Vitanza ha presentato i dati di 21 bambini con glioma diffuso della linea mediana trattati con CAR-T che contenevano il recettore per un antigene chiamato B7-H3, un antigene presente sulle cellule malate. Solo uno dei bambini ha avuto la reazione più temuta, la fortissima risposta immunitaria non dissimile dalla tempesta citochinica che abbiamo imparato a conoscere con i vaccini contro il Covid, e che è nota per essere una delle complicanze possibili. Gli altri hanno reagito bene, e in alcuni casi hanno avuto una sopravvivenza che è andata al di là di quella mediana, che non supera i 13 mesi dalla diagnosi. Per ora non si sa molto di più, perché questa prima fase sperimentale, decisa dopo che i modelli animali avevano mostrato ottimi risultati, era stata dedicata solo alla sicurezza, come sempre accade. Il caso del bambino è andato molto oltre, e da qui è nata la sua straordinarietà.

Allo stesso congresso, poi, un’altra esperta, Jasia Madhi, del Texas Children’s Hospital di Houston, ha presentato altri nove casi, trattati all’Università di Stanford, in California, con una CAR-T diversa, che conteneva il recettore di una proteina chiamata GD2. In quattro bambini il volume del tumore si è dimezzato. Nell’ambito di quello studio era stato incluso anche un ragazzo che sembra essere completamente guarito: al momento, non c’è traccia del suo glioma, e sono passati più di 30 mesi dalla procedura. Lui, intanto, si è diplomato e oggi frequenta l’università.

Ora Vitanza sta partendo con una nuova sperimentazione, una CAR-T che contiene le informazioni per quattro recettori di antigeni presenti su alcuni tumori del cervello e del midollo spinale, e quindi su CAR-T multiple, mentre in California, a San Francisco, si studiano le CAR-T di seconda generazione, che dovrebbero essere migliori rispetto a quelle approvate da diversi punti di vista. «Tra vent’anni - ha concluso Vitanza - le CAR-T saranno molto diverse da quelle che conosciamo oggi».

LA SICUREZZA: PASSI IN AVANTI - Uno dei principali limiti rispetto all’utilizzo delle CAR-T è sempre stato quello della sicurezza, perché le procedure e gli stessi linfociti modificati possono provocare reazioni anche molto pericolose (in alcuni casi addirittura mortali), perché a volte si verificano gravi infezioni e perché le CAR-T sono state sospettate di indurre, in qualche caso, altri tumori del sangue, e cioè linfomi, provocati (si pensava) da una integrazione errata dei geni delle CAR-T con altre cellule immunitarie, diverse dai linfociti T. Per questo tutti i Paesi che le utilizzano prevedono periodi di osservazione molto serrata più o meno lunghi, per cogliere eventuali reazioni prima che sia tardi. Ora però arrivano alcune notizie rassicuranti, sulle sei CAR-T approvate. Tre di queste sono per alcune forme di linfoma non Hodgkin, e in seguito a uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Blood Advances la Food and Drug Administration (FDA, l’ente che regola l’uso dei farmaci negli Stati Uniti) ha deciso di dimezzare il periodo di osservazione relativo a due sindromi immunitarie, la cytokine release syndrome (CRS) e la immune effector cell-associated neurotoxicity syndrome (ICANS), che colpiscono rispettivamente, circa il 60% e il 32% dei pazienti nella prima settimana. Nella seconda settimana, le percentuali crollano al 5,4 e 9,3%. Per questo ciò che conta sono soprattutto le prime ore e i primi giorni.
Le infezioni gravi hanno invece interessatoo, nel primo mese, il 14% dei malati e talvolta sono state mortali.
Finora, secondo le indicazioni della FDA, durante le prima quattro settimane dopo la somministrazione della terapia, i pazienti dovevano rimanere al massimo a due ore di automobile dall’ospedale, ed evitare di guidare per otto settimane (in altri Paesi le condizioni sono anche più stringenti). Ma l’analisi di ciò che è successo a 475 pazienti trattati in nove centri tra il 2018 e il 2023 ha convinto la FDA a dimezzare i tempi, segno che le prove sulla sicurezza sono più rassicuranti.

Anche i dati delle altre tre CAR-T sono simili. E confortanti sono anche quelli sul rischio di linfoma indotto dalla cura. Come riferito dal sito Stat, le indagini condotte su oltre 700 pazienti hanno confermato che i linfomi secondari osservati non sono stati provocati dalle CAR-T, ma da altre cause. Anche se restano terapie delicate e associate a rischi, le infezioni dovrebbero preoccupare molto più dei linfomi o delle reazioni immunitarie, perché sono ancora la principale causa di fallimento della cura e decesso. E comunque, più passa il tempo più gli esperti conoscono le CAR-T e sanno usarle al meglio. E ora, grazie ai bambini di Vitanza e dei suoi colleghi, iniziano a sperare di poterlo fare anche nei tumori solidi, soprattutto pediatrici.

Data ultimo aggiornamento 2 agosto 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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