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Tossici, ma ancora usatissimi:
la difficile sfida anti-PFAS

Li chiamano Forever Chemicals, cioè sostanze chimiche perenni, perché si disperdono nell’ambiente dalle migliaia di prodotti che le contengono, e lì restano virtualmente per sempre, essendo soggette a una degradazione quasi inesistente, a causa dei legami chimici molto forti che le caratterizzano. Sono i perfluoroalchili o PFAS, oltre 15.000 composti contenenti fluoro in uso dalla seconda metà del Novecento come plastificanti, e sempre più sotto accusa, perché associati a un numero crescente di danni per la salute, che vanno da svariati tipi di tumore alle difficoltà nel concepimento, dai disturbi della tiroide all’ipertensione, dall’obesità alle malformazioni fetali, dal diabete al ritardo nello sviluppo e così via.
Proprio per questo, in alcuni Paesi si sta cercando di capire se e come limitarne l’impiego, per esempio nelle materie plastiche a diretto contatto con il cibo, considerate tra le fonti primarie di PFAS, sia perché gli alimenti (specie se oleosi) spesso funzionano da solventi per gli PFAS, sia perché i contenitori scaldati con le microonde così come i rivestimenti per rendere le pentole antiaderenti aumentano la dispersione e, quindi, l’assunzione di PFAS. Le soluzioni, però, sono ancora piuttosto stentate, disomogenee e problematiche.
Eppure gli PFAS sono stati al centro di vicende giudiziarie clamorose, come quella che ha visto i cittadini di Parkersburg, in Virginia Occidentale (Stati Uniti), guidati dall’avvocato Robert Bilott, combattere una lotta ventennale contro il colosso della chimica DuPont, che aveva inquinato le falde acquifere con gli PFAS, causando gravissimi problemi di salute alla cittadinanza. Quella vicenda, narrata anche nel film Dark Waters, e nel libro di Bilott del 2019 Exposure Poisoned Water, Corporate Greed, and One Lawyer’s Twenty-Year Battle Against Dupont, si è conclusa con una multa da 670 milioni di dollari, e altre cause sono al momento in corso. Una delle più significative, invece, è appena giunta a sentenza: il colosso mondiale della chimica 3M dovrà pagare 10,3 miliardi di dollari a 13 città, per aver continuato a sversare PFAS nelle acque, pur sapendo - secondo i giudici - i rischi che ciò comportava.
Anche in Europa la sensibilità rispetto al problema degli PFAS è aumentata notevolmente negli ultimi anni: per esempio, un recente rapporto di Greenpeace, ha messo in luce come nella sola Lombardia (Italia) l’acqua di oltre cento comuni presenti valori elevati di PFAS. Ma tutto questo non sembra aver avuto conseguenze rilevanti.

UN LABIRINTO DIFFICILE DA DISTRICARE - Va detto che gli studi sul tema sono estremamente complicati: accanto ad alcune decine di PFAS volontariamente utilizzati per migliorare le caratteristiche di decine di categorie merceologiche, dai vestiti ai cosmetici, dai farmaci ai rivestimenti di case e auto a quelli antincendio, dalle moquette ai contenitori per cibi e bevande, dagli assorbenti alle lenti a contatto e così via, ce ne sono altre migliaia che si formano partendo dalle sostanze principali, e per interazione fra loro o con altri composti chimici. A questo va poi aggiunto l’accumulo nell’organismo umano, dove ogni PFAS incontra innumerevoli altre sostanze, dando luogo ad altre specie chimiche che svolgono azioni difficili da comprendere nel dettaglio, anche se il materiale su cui lavorare di certo non è scarso: diversi studi hanno stimato che non esista essere umano sulla Terra, o quasi, che non abbia nel proprio organismo concentrazioni più o meno elevate di PFAS.
Ciò spiega perché le ricerche più attendibili siano di due tipi: epidemiologiche, e cioè che analizzano l’andamento di alcune malattie o condizioni e lo mettono in relazione con la presenza, nell’ambiente o nel corpo, di PFAS; e su modelli animali, nei quali è possibile studiare gli effetti di queste sostanze, con meno elementi che potrebbero confondere i risultati.

I DATI NASCOSTI PER DECENNI - È quello che si sta facendo, e che potrebbe trovare nuovi stimoli grazie a un ennesimo scandalo che inchioda i grandi produttori alle loro responsabilità, rivelando, come dicevamo, che almeno due di loro, la DuPont e la 3M, hanno nascosto i dati e negato che gli PFAS potessero essere nocivi per decenni. Proprio grazie a Bilott, che ha consegnato tutta la documentazione raccolta per i processi, comprese migliaia di pagine di documenti interni e confidenziali, ai chimici dell’Università della California di San Francisco, è emersa una sistematica opera di occultamento delle prove. Il rapporto, intitolato Il diavolo che conoscevano, appena pubblicato sugli Annals of Global Health, ha fatto emergere numerosi fatti inquietanti, tra i quali:
- Già nel 1961 l’azienda DuPont sapeva che il Teflon (uno dei composti ancora oggi più diffusi) a basse dosi, fa aumentare il volume del fegato dei modelli animali; il responsabile, del resto, invitava a maneggiarlo con cautela, evitando qualunque contatto con la pelle;
- Nel 1970, sempre la DuPont scriveva che il C8, uno degli PFAS più usati, era tossico, se inalato o ingerito a dosi molto basse, e nel 1979 aveva visto che alcuni cani erano morti due giorni dopo aver ingerito una singola dose di un altro tra i più comuni PFAS, il PFOA;
- Nel 1980, due delle otto dipendenti incinte che lavoravano al C8 per la DuPont e la 3M avevano avuto bambini con malformazioni, ma le aziende non lo avevano segnalato a nessuno, tantomeno alle madri, e - anzi - poco dopo avevano dichiarato che non esistevano prove della pericolosità del C8 per il feto. Secondo la DuPont il C8 era stabile e sicuro come il sale da cucina.
Non contenta, e preoccupata per le prime notizie che iniziavano a filtrare, la DuPont aveva sollecitato l’Environmental Protection Agency (EPA), agenzia governativa statunitense preposta alla sicurezza ambientale, a esprimersi entro 24 ore proprio sul Teflon, ovviamente dichiarandolo sicuro, perché il PFOA (acido perfluoro-ottanoico) presente, secondo loro era una sostanza appunto non tossica.
Poi, nel 2004, la prima battuta d’arresto: l’EPA aveva condannato la DuPont a 16,4 milioni di dollari di multa per non aver reso pubblici i dati sulla pericolosità dello PFOA. Quell’anno l’azienda aveva guadagnato un miliardo di dollari, e la multa non ha avuto alcuna conseguenza. Ma qualcosa, in quel momento, è cambiato (e da allora sono state perse altre cause), al punto che oggi molti Paesi stanno cercando di capire come porre limiti all’utilizzo degli PFAS, e come cercare di eliminarli dall’ambiente.

LE AMBIGUITÀ DELL’EPA - Intanto l’EPA, i cui dirigenti sono stati nominati da Donald Trump, tutti di stretta inclinazione antiambientalista, ha appena preso una decisione che ha suscitato un enorme scandalo: ha permesso all’azienda Inhance, accusata a sua volta di avere ripetutamente mentito e occultato dati, di continuare a vendere i suoi 200 milioni di contenitori per il cibo pieni di PFAS, come ha denunciato il giornale britannico Guardian, che da anni segue gli PFAS anche con inchieste condotte dallo staff investigativo. L’EPA, che ha svariati contenziosi aperti sugli PFAS con le aziende, continua quindi a permetterne l’uso.
Nel frattempo, continuano a uscire studi nei quali si dimostra che gli PFAS danneggiano la salute. Uno degli ultimi,pubblicato dalla rivista Science of the Total Environment, riguarda la fertilità che, nelle donne più esposte, calerebbe del 30-40%. Lo hanno visto i ricercatori del Mount Sinai Hospital di New York studiandone circa mille, e misurando il contenuto di PFAS nel plasma tra il 2015 e il 2017. L’esposizione soprattutto ad alcune di queste sostanze da sole o in miscele, già nota per accrescere il rischio di endometriosi, ovario policistico e squilibri (ritardi) nella pubertà, si traduce poi in una difficoltà evidente a concepire. E l’esposizione inizia nell’utero, perché gli PFAS passano attraverso la placenta e il cordone ombelicale, e da lì arrivano nel latte.

NUOVE TECNICHE SPERIMENTALI - Infine, una speranza, per la decontaminazione ambientale, arriva dai batteri: secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Water, ce ne sarebbero due, chiamati Desulfovibrio aminophilus e Sporomusa sphaeroides, isolati nei terreni contaminati, capaci di degradarli, cioè di svolgere un compito che, finora, nessuno è mai riuscito a portare a termine efficacemente con metodi chimici o fisici. I ricercatori dell’Università della California di Riverside, autori della scoperta, stanno già studiando possibili apparecchiature per purificare le acque facendole passare in una coltura di batteri.
L’EPA, che permette alle aziende di continuare a immettere PFAS nell’ambiente, sta elaborando nuove indicazioni per la bonifica delle acque, che diventerà obbligatoria in alcune circostanze.
La lotta agli PFAS è appena iniziata, e non sarà una passeggiata. 
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(Nel disegno in alto, dell’agenzia iStock, una padella con il fondo antiaderente: questi utensili possono aumentare la dispersione e, quindi, l’assunzione di PFAS)

A.B.
Data ultimo aggiornamento 21 luglio 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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