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Strada "tortuosa" per il nuovo
anticorpo contro l’Alzheimer

di Agnese Codignola

Prima dati considerati così insoddisfacenti da giustificare l’annuncio di uno stop per mancanza di efficacia clinica. Poi una rivalutazione degli stessi, con una inversione a U delle conclusioni, e una nuova interpretazione secondo la quale l’anticorpo monoclonale aducanumab, dell’azienda americana Biogen, diretto contro le placche di proteina beta-amiloide tipiche della malattia di Alzheimer, funziona. Quindi un’approvazione accelerata – quella della Food and Drug Administration statunitense (l’ente che regola la sperimentazione e la vendita dei farmaci negli USA) – talmente discussa da provocare le dimissioni di una parte del comitato di esperti chiamati a esprimersi, del tutto contrari al via libera e, in seguito, ben due commissioni di inchiesta del Congresso sull’approvazione. Poi, ancora, il parere contrario dell’omologo comitato dell’agenzia europea per i farmaci, l’EMA. Infine la pubblicazione dello studio che valuta gli effetti collaterali dell’anticorpo, molto pesanti, e le conseguenti dimissioni di Al Sandrock, uno dei massimi sostenitori del monoclonale, da vent’anni in azienda e responsabile di alcuni dei progetti più fortunati di Biogen. 

Quello che ha attraversato il mondo della ricerca di terapie per l’Alzheimer negli ultimi mesi è un autentico terremoto che, a ben vedere, era già prevedibile negli ultimi anni. Ed è diventato ancora più probabile quando c’è stato quel dietrofront così poco ortodosso da parte prima dell’azienda stessa, sui risultati, e poi della FDA che, secondo numerosi esperti, è stata a dir poco incauta nel dare la sua approvazione in una situazione di quel tipo. Perché aducanumab era considerato il primo vero risultato tangibile di una controversa impostazione degli studi che è rimasta immutata per decenni, nonostante sia sempre stata costellata di clamorosi insuccessi, abbia fatto perdere a molte delle big pharma (le granzi aziende multinazionali del farmaco) decine di miliardi di dollari e non abbia condotto a nulla: l’impostazione che puntava tutto sul dissolvimento delle placche. E se quel primo anticorpo moncolonale avesse fallito la prova clinica, il segnale sarebbe stato devastante per tutti. In effetti, è andata proprio così.

Eppure era stato lo stesso Alois Alzheimer (lo psichiatra tedesco che per primo aveva descritto nel 1906 la malattia) a sostenere, nelle sue dissertazioni, che con ogni probabilità il punto nodale della malattia non erano le placche. La sua intuizione aveva trovato varie conferme nel tempo perché, anche riuscendo a sciogliere le placche, non si hanno effetti clinici, visto che le stesse si trovano anche in persone del tutto sane o, sul versante opposto, non sempre i malati le hanno. Ma la maggior parte sì, e per questo sono diventate, nel tempo, una delle caratteristiche di questa forma di demenza. 

Tuttavia le placche, depositandosi, danneggiano il cervello in modo tale che, anche se poi spariscono, non c’è modo di recuperare le funzioni perse, se non in minima parte. Ed è per questo motivo che da tempo una parte della comunità scientifica dei neurologi invita a guardare altrove, e a puntare su nuovi e più precoci bersagli, se si vuole davvero sconfiggere la malattia.

Ma l’aducanumab sembrava mostrare qualche modesto beneficio, e per questo è stato approvato, con costi della terapia che, di nuovo, secondo buona parte dei neurologi, non sono sostenibili, a fronte dell’effetto: 56.000 dollari all’anno.

Ora però è possibile che la situazione cambi ulteriormente, perché sono stati resi noti i primi dati sul campo, pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Neurology, relativi a oltre 3.500 persone con i primi segni di demenza (età media: 70 anni), metà dei quali aveva preso parte a uno dei due grandi studi che hanno messo a confronto l’aducanumab con un placebo, chiamati EMERGE ed ENGAGE, per valutarne efficacia e tossicità. Il risultato è stato che più del 35% dei pazienti trattati ha avuto un’emorragia cerebrale visibile con la risonanza, spesso lieve al punto da non dare sintomi, ma in un malato su quattro con sintomi. In alcuni casi si è risolta spontaneamente dopo qualche giorno, in altri ci sono volute settimane. E ci sarebbe stato anche un decesso attributo alla terapia con aducanumab, sul quale però le indagini non sono concluse.
Lo studio descrive nel dettaglio le diverse situazioni con emorragie più o meno estese, ma è evidente che se una terapia non è molto efficace, costa molto e per di più comporta il rischio di sanguinamenti cerebrali, è difficile che abbia un futuro roseo. Del resto, è di questa opinione anche un articolo che fa il punto sulla situazione, pubblicato a metà novembre da Nature. In esso si parla anche di un altro anticorpo monoclonale che potrebbe essere prossimo all’approvazione, il donanemab di Eli Lilly, che ha lo stesso meccanismo d’azione di aducanumab. Al momento sono in corso uno studio su 1.500 pazienti, che dovrebbe terminare nel 2023, per verificarne l’efficacia, e un altro, che coinvolgerà altri 3.300 pazienti, per verificare un eventuale effetto preventivo, e che sarà concluso nel 2027. 

Anche questo monoclonale riesce a sciogliere le placche (fino all’80%), ma gli effetti clinici visti finora sono inferiori a quello di uno dei più vecchi farmaci usati nell’Alzheimer, il donepezil, che costa pochissimo. Ciononostante, ci si aspetta che la Eli Lilly sia trattata nello stesso modo di Biogen dalla FDA, e che anche a questa azienda sia permesso vendere il suo monoclonale.
E allora si capisce perché l’articolo si chiuda con la riflessione del bioeticista dell’Università della Pennsylvania (sede di Filadelfia) Ezekiel Emanuel, molto critico su tutta la vicenda: «Se un tribunale crea un cattivo precedente, non segui il cattivo precedente. Correggi il precedente».

Data ultimo aggiornamento 8 gennaio 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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