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Siamo noi a decidere di stare meglio

E’ da oltre 40 anni che convivo con il Crohn!

Purtroppo negli anni ’70 era un problema sconosciuto. All’epoca ero giovane e piena d’energia. Avrei voluto diventare infermiera per poi partire per l’Africa e dedicarmi alle persone bisognose d’aiuto, ma l’insicurezza non mi permise di farlo. Sentivo che avrei potuto essere un peso, e non un aiuto come avrei voluto.

I medici, non sapendo cosa fare, prescrivevano farmaci tranquillanti, ma capii subito che non potevo assumere quelle medicine, che per di più mi intontivano. I crampi alla pancia, le diarree, le nausee e la perdita di peso non dipendevano dal mio stato d’animo. Per questo smisi di prenderli dopo una settimana e spinta dall’instinto iniziai una dieta povera di grassi e latticini. Yogurt, formaggi magri e latte mi creavano infatti seri problemi.

Nel frattempo, nel 1972, a soli 21 anni, mi sono sposata. Fu un anno più tardi che ebbi la prima vera crisi. La morte inaspettata di mio padre mi sconvolse e generò in me una tristezza che sfociò in una serie di blocchi intestinali talmente gravi da richiedere il ricovero. Alcune settimane dopo, tornata a casa, le cose sembravano andare meglio e dopo qualche mese rimasi incinta di mia figlia. Fu un bel periodo, e la nascita della mia piccola mi diede tanta felicità. Anche gli anni a seguire furono tranquilli, così come restò tranquillo anche il Crohn che ancora non sapevo di avere.

Condussi una vita normale fino al 1979, quando ebbi il mio secondo figlio. Alla grande gioia si unì un attacco improvviso di Crohn, ma solo dopo tante analisi i medici riuscirono a scoprire la vera causa del mio malessere. Sono seguiti anni di cortisone e i primi interventi. Alcuni anni fa iniziai però a documentarmi, incappando in un dibattito medico sulle malattie del sistema immunitario in cui un esperto affermò che il Crohn può essere scatenato da un grande dolore o anche da una grande gioia. Allora capii: tutte le volte che avevo dovuto affrontare un evento drammatico (la morte di mio padre) o un evento gioioso (la nascita di mio figlio) avevo anche dovuto fare i conti con i sintomi del Crohn.

In totale ho subito 7 interventi. I primi sono stati dolorosi e lunghi, e mi hanno costretta lontana dalla mia casa e dai miei figli per alcune settimane. La medicina ha però fatto enormi passi in avanti, e adesso anch’io assumo gli immunosoppressori. So che dovrò farmi asportare un altro piccolo pezzo di intestino, ma non mi spaventa: il ricordo del benessere che ho provato dopo gli interventi e i diversi anni in cui sono rimasta in pace mi rassicurano. E poi oggi le operazioni non sono dolorose come 30 anni fa!

Al momento (per evitare l’ennesimo intervento) mi hanno sottoposto a una nuova cura che prevede un’iniezione ogni due settimane, e il fatto stesso di non dover assumere più nessun farmaco per via orale sta facendo bene al mio intestino. Spero che funzioni.

Potrei raccontare ancora molto del mio passato, ma preferisco non pensarci, guardare avanti e non arrendermi mai. Conosco diverse persone molto più giovani di me che vivono con il Crohn, e l’unico consiglio che mi sento di dare loro è di non lasciarsi sommergere dalla malattia. In fondo – ho scoperto – siamo sempre noi a decidere di stare meglio. Auguro a loro e a tutte le altre persone che soffrono di trovare la forza necessaria per accettare questo problema e convivere con lui serenamente.

Letizia

Letizia
Data ultimo aggiornamento 11 giugno 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: farmaci



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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