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Nel calcio, i traumi provocati dai colpi di testa modificano e infiammano il cervello

Crescono le prove che dimostrano che gli sport da contatto, che prevedono traumi alla testa, sarebbero da evitare. In questo caso sotto accusa è finito il calcio, e i suoi colpi di testa, che inducono piccoli ma significativi cambiamenti strutturali nel cervello e infiammazioni che, alla lunga, potrebbero aumentare il rischio di malattie neurodegenerative, come già emerso in diversi studi epidemiologici condotti tra i calciatori.

A studiare gli effetti dei colpi di testa sono stati i ricercatori dell’Università di Sidney, in Australia, che hanno condotto una serie di test in tempo reale. Come riferito su Sport Medicine Open, hanno selezionato 15 calciatori, e hanno chiesto loro di colpire il pallone di testa per 20 volte consecutive, nell’arco di pochi minuti. Quindi, subito dopo, li hanno sottoposti a una risonanza magnetica al cervello (entro 45 minuti), e a un prelievo di sangue per dosare alcuni marcatori, mentre subito dopo li hanno invitati a rispondere ad alcuni test cognitivi. Per controllo, alcuni calciatori hanno colpito il pallone (sempre uguale per dimensioni e peso) con i pugni.

I risultati hanno confermato che chi colpisce di testa presenta alcuni cambiamenti nelle aree che controllano il movimento e nell’attività elettrica cerebrale. Inoltre, i marcatori associati al rischio di demenza e allo scadimento delle facoltà cognitive aumentano sensibilmente. Non ci sono state tracce di conseguenze cognitive, ma questo non stupisce, perché la neurodegenerazione, che potrebbe essere favorita dai traumi alla testa, impiega comunque decenni prima di diventare clinicamente e anatomicamente evidente.

Alcuni paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti stanno già limitando i colpi di testa, per esempio nei bambini che giocano a calcio, e altri ci stanno riflettendo, anche in conseguenza dell’aumento di malattie neurodegenerative come le demenze o la sclerosi laterale amiotrofica che si vede tra i giocatori professionisti. La speranza è che presto lo facciano tutti.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 5 agosto 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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