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Perché non siamo ancora
riusciti a battere il cancro

di Valeria Camia

“Cancer prevention, the most cost-effective cancer policy” (Prevenzione del cancro: la politica più efficace per le cure oncologiche): si apre così “Time to accelerate for Europe”, il Manifesto svelato il 15 novembre a Bruxelles dall’European Cancer Organisation e sottoscritto da diversi membri delle istutuzioni europee - a partire dalla Commissaria dell’UE per la Salute e la Sicurezza Alimentare, Stella Kyriakides, la quale ha ribadito, per l’occasione, l’impegno a lavorare «per un agire europeo capace di promuovere una vera politica contro il cancro e di garantire a ogni paziente l’accesso a cure di alta qualità». Il Manifesto include una serie di raccomandazioni per prevenire e combattere la diffusione dei tumori, e la richiesta di creare una Rete europea di Centri oncologici integrati.

Quello dell’universalità dell’accesso a programmi di screening, prevenzione e cure rimane un nodo dolente in Europa. Cultura, livello di istruzione, disponibilità finanziarie, appartenenza a minoranze etniche, oltre alla qualità della sanità, all’invecchiamento della popolazione e all’accessibilità delle cure: tutto ciò concorre a non rendere omogenei i potenziali successi della lotta contro il cancro. 

Oggi la percentuale di sopravvivenza dopo dieci anni dalla diagnosi, per alcuni tipi di tumore, è nettamente migliore rispetto alla metà del secolo scorso. Dati recenti provenienti dal Regno Unito mostrano, ad esempio, che il tasso di sopravvivenza standardizzato per età a 5 anni dalla diagnosi è superiore all’80% per il cancro al seno. Tuttavia, per altri tipi di tumore questa percentuale scende, invece, sotto il 20%. «Non c’è ancora stato quello “scatto in avanti” che si è verificato in altre aree della medicina - conferma Ajay Aggarwal, direttore clinico per il National Cancer Audit di Londra e membro del Consiglio dell’European Cancer Organisation - ma ciò non dovrebbe indurci a dimenticare che importanti risultati sono stati raggiunti negli ultimi anni. Teniamo presente che la risposta a questa domanda (“perchè il cancro non è ancora stato sconfitto?”) è molto complicata. Abbiamo trattamenti farmacologici molto efficaci che sappiamo possono curare il tumore. La nostra chirurgia è diventata più raffinata. La radioterapia è diventata più precisa. Stiamo cercando di rendere questi trattamenti più centrati su ogni singolo paziente, con meno tempo da trascorrere in ospedale, meno probabilità di essere ricoverati nuovamente, e durate più brevi della radioterapia utilizzando dosi più elevate. Stiamo anche ottenendo risultati migliori per le persone a cui vengono diagnosticate forme di cancro in stadi avanzati (persone che in passato avevano una speranza di vita inferiore a 12 mesi). Penso in particolare al cancro ai polmoni, che potremmo definire un caso di successo grazie ai nuovi farmaci. Purtroppo, questi non sono curativi, ma prolungano significativamente la vita».

I progressi nella lotta contro il cancro continueranno, ma questo, per Ajay Aggarwal, non sarà necessariamente legato alle innovazioni in termini di terapie (spesso complesse e costose da amministrare): bisogna concentrarsi meglio - suggerisce - anche sulle cure di base, sulla prevenzione e sui metodi per ottenere diagnosi sempre più precoci, in modo da individuare i tumori quando sono ancora ben curabili. «Se riusciremo a migliorare la percentuale dei casi di cancro che vengono diagnosticati allo stadio uno - dice Aggarwal - avremo un cambiamento importante e visibile nei risultati di cura di questi pazienti. Il problema è che, per ora, non siamo in grado di coinvolgere un numero sufficiente persone. La consapevolezza del cancro, i fattori di rischio, l’assicurazione sanitaria: tutti questi aspetti comportano ritardi nel raggiungere l’obiettivo finale e, soprattutto, esistono ancora enormi differenze tra i diversi Paesi e all’interno dei gruppi di popolazione».

Qualche dato: in Svezia oltre il 95% delle donne si sottopone a screening preventivi del cancro al seno, in Italia, il dato scende al 70% circa della popolazione di riferimento e nel Regno Unito si ferma al 58%. In Norvegia, il 98% della popolazione è vaccinata contro il virus HPV (responsabile della maggior parte dei tumori al collo dell’utero), in Svizzera il 91%, in Italia l’87% e in Polonia il 73%. C’è poi la questione delle possibili discriminazioni, come mostrano dati diffusi online dall’European Cancer Pulse. In Europa il 16% delle persone che appartengono alla comunità LGBTQ+ e oltre il 39% delle persone transgender dichiarano di essere soggette a discriminazioni durante le cure sanitarie. Ma non basta: ben il 70% delle persone transgender non si è mai sottoposto a un programma di screening.

Infine, non vanno sottovalutate le sfide che il cancro pone, per quanto riguarda l’invecchiamento della popolazione. «La probabilità di sviluppare il cancro aumenta con l’avanzare dell’età - spiega Aggarwal. - Quindi il peso del cancro crescerà nei decenni a venire, visto che è sempre più ampia la quota di persone anziane in Europa. Da questo punto di vista, il problema della sostenibilità effettiva dei servizi oncologici, da parte dei bilanci pubblici, diventa urgente, considerando anche che spesso altre patologie sono presenti nei malati oncologici, come il diabete e l’ipertensione. Insomma, dovremo gestire pazienti sempre più complessi, cercando di offrire trattamenti diversi e migliori agli anziani (ed è in questo ambito che l’oncologia geriatrica svolge un ruolo molto importante). Ma tutto questo richiede più risorse da destinare al sistema sanitario».

Ma c’è anche un problema di cui si parla poco, pur essendo importante: «I pazienti anziani - dice Aggarwal - non vengono inclusi di frequente negli studi di ricerca, che tendono a coinvolgere, invece, pazienti prevalentemente sotto i 70 anni. Dovremo migliorare la nostra inclusività nelle sperimentazioni cliniche, per preparare i nostri sistemi sanitari a ottenere risultati migliori in tutte le fasce d’età».

 

Data ultimo aggiornamento 22 novembre 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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