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Perché l’infiammazione torna
a colpire sempre gli stessi punti

di Agnese Codignola

Alcune cellule del sistema immunitario sono incaricate di custodire la memoria di ciò che hanno incontrato e che le ha portate ad attivarsi. Questo consente loro di reagire rapidamente, in caso si trovino nuovamente di fronte allo stesso stimolo: è ciò che permette ai vaccini di funzionare, e a chi ha già montato una risposta contro un agente infettivo durante un’infezione di non sviluppare più la malattia o di averla in forma molto più leggera se non addirittura asintomatica. Ora uno studio dei pediatri del Boston Children’s Hospital e dei medici del Brigham and Women’s Hospital sempre di Boston fa un passo in avanti nella conoscenza di questi meccanismi, non per quanto riguarda le infezioni, ma per le reazioni errate che il sistema immunitario sviluppa contro le cellule dello stesso organismo: nelle malattie autoimmuni e, nello specifico, nell’artrite reumatoide.

I ricercatori di Boston si sono infatti chiesti come mai le crisi associate alle riacutizzazioni (i cosiddetti flare), tendano a svilupparsi sempre nel tessuto dove sono comparse la prima volta, per esempio nell’articolazione di un ginocchio e non in quella dell’altro, anche se sono passati anni tra un episodio e il successivo. I principali responsabili sono stati individuati in un sottotipo di linfociti T della memoria chiamati "residenti nei tessuti", perché strettamente associati, appunto, a un tessuto specifico (in questo caso alla sinovia, una membrana dell’articolazione del ginocchio). Come riporta lo studio pubblicato sulla rivista scientifica Cell Reports, questi linfociti rimangono nella sinovia, quasi in attesa di scatenare la flare successiva a quella che li ha attivati: per questo le riacutizzazioni sono sempre negli stessi punti. E per questo, se si riuscisse a eliminare specificamente quella popolazione di linfociti, si abbatterebbe il rischio delle stesse.

Gli autori hanno confermato la loro ipotesi (sia il ruolo di questi linfociti sia gli effetti della loro eliminazione) in tre diversi modelli animali di artrite reumatoide: in due casi provocata da agenti chimici, in uno da una mutazione genetica. Hanno così dimostrato che esistono i presupposti per cercare di sviluppare una modulazione specifica dei linfociti residenti. Se ciò avvenisse, si potrebbe arrivare a una cura molto più soddisfacente di quelle attuali, che richiedono somministrazioni per tutta la vita e non curano la malattia, ma ne tengono solo sotto controllo l’andamento. Non solo: lo stesso approccio potrebbe essere impiegato anche per altre forme autoimmuni come l’artrite giovanile idiopatica, così come nella psoriasi.

La pelle è particolarmente interessante, perché questi linfociti sono stati identificati la prima volta proprio nei tessuti cutanei: infatti anche la psoriasi ricorre nelle stesse zone, così come accade con alcune ipersensibilità da contatto (come quella al nichel) che si manifestano sempre nello stesso posto dove sono comparse la prima volta, per esempio su un avambraccio anche quando sono provocate da un orecchino. Farmaci selettivi potrebbero essere dunque molto utili anche nelle forme autoimmuni che interessano la cute.

 

 

Data ultimo aggiornamento 6 aprile 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: linfociti T, malattie autoimmuni, psoriasi



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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