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La sindrome da affaticamento cronico si riconosce da più di cento marcatori specifici

La sindrome da affaticamento cronico, nota anche come encefalomielite mialgica/sindrome da fatigue cronica o ME/CFS, a lungo considerata poco più che un malanno immaginario, è davvero una malattia. E la conferma arriva da uno studio dopo il quale sarà molto difficile continuare a sminuirne la gravità e a ignorarne le caratteristiche. 

A condurlo sono stati i ricercatori dell’Institute of Genetics and Cancer e quelli delle Schools of Mathematics and Informatics dell’Università di Edimburgo, in Scozia, che hanno lavorato sui dati di circa mezzo milione di persone che hanno aderito alla UK Biobank, il grande progetto di raccolta di campioni e in formazioni sulla popolazione britannica. Come riportato su EMBO Molecular Medicine, gli autori hanno analizzato più di 3.000 marcatori del sangue di 1.455 persone con ME/CSF e di 131.000 individui sani, per verificare eventuali differenze. E hanno così scoperto che ne esistono ben 116 che cambiano in modo evidente, nei malati, spesso in modo diverso a seconda del sesso. La stragrande maggioranza di essi riguarda la funzionalità epatica, il sistema dell’insulina e l’infiammazione, e il quadro generale spiega anche alcuni dei sintomi più classici. Tra questi ultimi c’è il post-exertional malaise, il malessere che coglie i pazienti quando fanno esercizio fisico. Mentre in altre situazioni caratterizzate da debolezza l’attività graduale aiuta, e di solito fa parte delle terapie prescritte, nel caso della ME/CSF peggiora i sintomi, ed è quindi diventato uno dei segni grazie ai quali riconoscere la malattia. Lo studio prosegue, nel tantativo di restringere il campo e identificare quei pochi marcatori che, da soli, possono consentire di diagnosticare l’ME/CSF, in modo da poter trasformare quella "firma" in un test che qualunque laboratorio può eseguire, e qualunque medico leggere.

 


Data ultimo aggiornamento 30 giugno 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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