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Parlare più lingue dalla nascita favorisce
lo sviluppo cognitivo dei bambini autistici

Parlare più lingue fino dalla nascita fa bene anche ai bambini autistici, e non solo non ne rallenta lo sviluppo cognitivo ma, al contrario, migliora alcuni aspetti delle loro capacità intellettive. Lo dimostra uno studio condotto dai ricercatori dell’università della California di Los Angeles, che volevano verificare se le difficoltà poste dall’apprendimento contemporaneo di più lingue aggravassero il quadro cognitivo dei bambini con disturbi dello spettro autistico, come talvolta si è sostenuto in passato. A tale scopo hanno reclutato cento bambini autistici e non, di famiglie multilingue e non, tutti di età compresa tra i sette e i 12 anni, e hanno valutato, le risposte dei parenti a specifici questionari relativi alla capacità di interazione, ai comportamenti ripetitivi, alla possibilità di comprendere gli altri e allo svolgimento delle mansioni quotidiane. Inoltre hanno misurato alcuni parametri tipicamente significativi negli autistici. Tra questi:

• L’inibizione, ovvero la capacità di evitare di fare qualcosa di irrilevante o di distrarsi. 

• La memoria di lavoro, ovvero la capacità di tenere a mente qualcosa, come ricordare un numero di telefono. 

• Lo spostamento, ovvero la capacità di alternare due o più compiti diversi, come giocare con i giocattoli e poi pulire. 

I risultati, pubblicati su Autism Research, non hanno lasciato dubbi: i bambini autistici che crescono in famiglie multilingue ottengono punteggi migliori da tutti i punti di vista e in tutti i parametri rispetto a quelli che crescono in famiglie dive si parla una sola lingua, e lo stesso vale per i bambini non autistici. Probabilmente il merito è del fatto che il cervello, per passare da una lingua a un’altra, deve inibire la prima e attivare la seconda, e questa sorta di ginnastica mentale continua favorisce lo sviluppo più armonico e completo del cervello, sia autistico che non autistico.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 9 gennaio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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