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Immunoterapia, un’arma
contro il linfoma di Hodgkin

Un team di oncologi del Dana-Farber Cancer Institute di Boston punta i riflettori sull’efficacia dell’immunoterapia nel trattamento del linfoma di Hodgkin. In uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine gli esperti hanno infatti dimostrato che quando la chemioterapia non funziona e, magari, si ha anche già affrontato un trapianto senza successo è possibile rispondere positivamente al trattamento immunoterapico con nivolumab.

Il farmaco in questione è un anticorpo in grado di bloccare la cosiddetta programmed death 1 (PD1), via attraverso cui le cellule tumorali riescono ad evadere il controllo del sistema immunitario. Sottoponendo al trattamento con nivolumab un piccolo gruppo di pazienti con linfoma di Hodgkin resistente alla chemioterapia, e in gran parte già trapiantati senza successo, i ricercatori di Boston hanno scoperto che una volta neutralizzata la PD1 l’organismo attacca e distrugge le cellule tumorali senza aver più bisogno di altre terapie.

Lo studio ha previsto che 23 pazienti fossero trattati ogni 2 settimane con il farmaco; 6 mesi dopo l’87% dei partecipanti ha mostrato una risposta parziale o completa al trattamento, ancora visibile dopo un anno. In 4 casi non c’erano più segni di malattia, mentre in altri 16 la risposta era parziale, con effetti collaterali in linea con le attese. Il nivolumab è infatti stato approvato pochi mesi fa dalle agenzie regolatorie di Stati Uniti (FDA) ed Europa (EMA) per il trattamento dei tumori del polmone e del melanoma avanzati; per questo i suoi effetti avversi sono noti.

La FDA ha già concesso la procedura accelerata affinché vengano compiuti al più presto studi su popolazioni più ampie di pazienti affetti da linfoma di Hodgkin. Se i risultati confermeranno i primi dati si potrebbe presto avere a disposizione una nuova terapia estremamente efficace per combattere questi tumori.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 15 giugno 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: immunoterapia, nivolumab, PD1



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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