SEMAGLUTIDE
Obesità, il rebus dei nuovi farmaci:
efficaci, ma con aspetti da chiarire

di Agnese Codignola
Nel 2021 la Food and Drug Administration statunitense (l’ente che regola la ricerca e il mercato dei farmaci) ha allargato le indicazioni per un medicinale approvato quattro anni prima per il trattamento del diabete: la semaglutide, che aveva mostrato di ridurre il peso del 14,9% dopo un trattamento di 16 mesi basato su un’iniezione settimanale della molecola (il gruppo trattato con placebo aveva perso solo il 2,6% del peso), accompagnata da alcune regole come lo svolgimento di un’attività fisica e una dieta controllata. Per la prima volta, quindi, un farmaco era esplicitamente consigliato per chi aveva un indice di massa corporeo (o BMI, parametro che è dato dal rapporto tra peso in kg e il quadrato dell’altezza in metri) superiore a 30 e non voleva optare per i metodi chirurgici.
Poche settimane fa sono stati pubblicati, sul New England Journal of Medicine, i dati ottenuti con la stessa molecola su una popolazione pediatrica, di ragazzi di età compresa tra i 12 e i 18 anni: in un terzo di essi, la stessa modalità di somministrazione aveva ridotto il peso del 20%, un valore non lontano da quello assicurato, negli adulti, dalla chirurgia e mai ottenuto con un farmaco.
Secondo alcuni commentatori, i dati sui ragazzi segnano definitivamente l’inizio di una nuova era, a lungo attesa perché l’obesità è a tutti gli effetti una patologia contro la quale si può fare ben poco, se non si hanno a disposizione trattamenti medici.
Ma secondo altri esperti rimangono molti aspetti da chiarire, prima di proporre agli obesi di qualunque età di intraprendere una terapia che ha diversi effetti collaterali, il cui meccanismo d’azione non è del tutto noto (ma si sa che interferisce con il metabolismo). Una terapia che deve essere probabilmente assunta per tutta la vita, che medicalizza una condizione che sarebbe meglio combattere con uno stile di vita e soprattutto un’alimentazione diversa da quella che ha portato all’accumulo di peso, e che è estremamente costosa (i prezzi, per ora, sono di circa mille dollari al mese), e non sarà quindi accessibile alla maggior parte di coloro che ne hanno bisogno.
Probabilmente, solo il tempo e l’impiego su ampie fasce di popolazione aiuteranno a capire chi ha ragione. Ma come si è arrivati alla semaglutide, e che cos’è questo medicinale?
Per capire da dove arriva, è necessario fare un passo indietro fino al 1994. In quell’anno, infatti, l’endocrinologo Jeffrey Friedman della Rockefeller University di New York scopre la leptina, un ormone prodotto dalle cellule adipose, che agisce sull’appetito e provoca il senso di sazietà. Sembra una scoperta epocale, e lo è dal punto di vista dei meccanismi che regolano la sazietà. Tuttavia, i numerosi studi che subito prendono il via deludono le aspettative: somministrata come farmaco, la leptina causa solo una modestissima perdita di peso, e danneggia il cuore.
Ma l’approccio che punta sugli ormoni è ormai in pieno sviluppo, e l’attenzione si sposta su un’altra molecola, il GLP-1 o Glucagon-like Peptide 1, che agisce stimolando la produzione di insulina. La strada è quella giusta, per quanto riguarda il diabete di tipo 2 (caratterizzato da una diminuzione della sintesi di insulina), e la FDA inizia ad approvare i farmaci che riproducono l’azione di GLP-1 nei primi anni Duemila. I medici che li usano, però, notano un effetto inatteso: i pazienti, oltre a migliorare il proprio quadro glicemico, sembrano perdere peso, fatto oltremodo positivo nel diabete di tipo 2, associato proprio al sovrappeso e all’obesità. La domanda sorge quindi spontanea: questi farmaci potrebbero essere utili contro l’obesità, a prescindere dal diabete?
Il primo candidato, la liraglutide, sperimentato in quegli anni e in seguito approvato, non dà i risultati attesi, perché fa perdere solo l’8% del peso (contro il 3% dei controlli, come si dice in termine tecnico, cioè delle persone che, nell’ambito della stessa sperimentazione, non avevano assunto la liraglutide). Ma poi arriva la semaglutide, e la situazione sembra cambiare bruscamente. La molecola, a differenza delle precedenti, resta più a lungo nell’organismo e per questo riesce a essere più incisiva sul peso e, oltretutto, sembra avere effetti positivi sul cuore.
È poi la volta della tirzepatide, una molecola di nuova generazione, approvata nel 2022 per il diabete e dotata di un doppio meccanismo d’azione: oltre a quello su GLP-1, ne ha anche uno su un altro ormone, che imita, chiamato GIP o Glucose-dependent Insulinotropic Polypeptide. Il farmaco sarebbe capace di indurre una perdita di peso superiore al 20% (contro il 3% dei controlli). Ma, al tempo stesso, suscita non poche perplessità, innanzitutto per l’inattesa azione di GIP che, nel farmaco, risulterebbe opposta a quella che si vede in natura (nell’organismo umano GIP promuove l’obesità, e non viceversa), senza apparenti spiegazioni plausibili. Secondo alcuni farmacologi e diabetologi, intervistati dalla rivista scientifica Nature in un articolo che fa il punto sulla situazione, l’effetto sarebbe dovuto alla parte del farmaco che imita GLP-1, presente in un dosaggio molto elevato, mentre quella che riproduce GIP non avrebbe alcun effetto. In ogni caso, approvare e consigliare una molecola il cui meccanismo d’azione è oscuro non sarebbe una buona idea, visto che si va a interferire con il metabolismo, e visto che queste terapie danno tutte vari effetti collaterali, tra i quali la nausea e il vomito, che possono diventare anche gravi. Il farmaco, comunque, non è ancora stato approvato dalla FDA per l’obesità: si attendono i dati della fase III delle sperimentazioni cliniche, che dovrebbero arrivare entro pochi mesi.
Ma le questioni aperte sono ancora numerose. Una delle principali è quella del costo: visti i numeri dell’obesità - che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) interessa ormai il 13% della popolazione mondiale, con Paesi come gli Stati Uniti dove arriva al 50%, e con un tasso medio di persone in sovrappeso e quindi a rischio obesità, a livello mondiale, del 40% - un costo uguale o superiore ai mille dollari al mese sarebbe insostenibile, se non per le fasce di popolazione più agiate, che sono anche quelle meno colpite dall’obesità.
Poi c’è la questione relativa alla sensibilità: in tutti gli studi effettuati, solo una porzione degli obesi risponde, e nessuno ha ancora capito perché, e se e come superare la resistenza.
Non c’è chiarezza, poi, sulla durata della cura: probabilmente si dovrebbe fare per tutta la vita, ma nessuno ne conosce gli effetti a lungo termine. Da ultimo, affrontare l’obesità con un approccio esclusivamente farmacologico potrebbe essere pericoloso dal punto di vista sociale, perché non educa le persone a vivere e a mangiare meglio, e perché, secondo alcuni psicologi, servirebbe a perpetuare un certo modello che equipara la magrezza alla positività e l’obesità a malattia. Ma il 30% degli obesi è in buona salute metabolica, e ciò dimostra quanta strada ci sia ancora da fare prima di avere un’oidea chiara ed esaustiva su questa complessa condizione. Medicalizzare gli obesi significherebbe aumentare indirettamente i rischi di disturbi del comportamento alimentare, e manterrebbe intatto lo stigma sociale che accompagna l’obesità.
L’OMS, per il momento, raccomanda solo dieta ed esercizio fisico. In gennaio, l’American Academy of Pediatrics (AAP) ha raccomandato l’utilizzo di questi farmaci per i ragazzi di età compresa tra i 12 e i 18 anni, così come quello dell’antidiabetico classico metformina e dei farmaci antiobesità della generazione precedente, il cui capostipite, a sua volta associato a molti problemi, è l’orlistat. L’obesità fino dalla più tenera età predispone a una vita ad alto rischio di numerose patologie, tra le quali quelle cardio e cerebrovascolari, quelle ossee e una ventina di forme di tumore. Per tale motivo, dopo più di dieci anni dall’ultimo aggiornamento, e dopo che le indicazioni precedenti invitavano a intervenire sullo stile di vita e a controllare i parametri medici, le linee guida sono state aggiornate e ora puntano senza esitazione anche verso le cure farmacologiche.
Molti pediatri, tuttavia, hanno definito barbarico, razzista (i bambini più poveri non potranno pagare le terapie) e folle un approccio che si basi solo sui farmaci in una popolazione così giovane e, soprattutto, prima di chiarire i molti aspetti ancora critici, a cominciare da quelli relativi alla natura dell’obesità, alle sue cause, e alla sua regolazione, e quelli su tutte le caratteristiche, a breve, medio e lungo termine dei farmaci consigliati in quella popolazione.
Data ultimo aggiornamento 24 gennaio 2023
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