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Non deve esistere la parola compassione

di Stefano Berardi

I primi segni della malattia, sebbene ancora piuttosto blandi, ebbero inizio quando avevo circa 26 anni (oggi ne ho 47): soffrivo di forti dolori lungo tutta la schiena, dolori che talvolta erano proprio insopportabili. Le prime richieste di spiegazioni le rivolsi al mio medico generico e fui così mandato per una visita presso un ortopedico. Questi mi disse che il dolore (sia lungo la parte alta, che lungo quella bassa della schiena) era dovuto a una postura errata, a sua volta causata da una differente lunghezza delle gambe. Insomma, avevo una gamba un po’ più corta dell’altra, questo mi faceva camminare male e la cosa mi provocava il mal di schiena.

Lasciai perdere per diversi mesi, forse addirittura anni, ma visto che i dolori perduravano e si intensificavano, senza motivi apparenti, decisi di approfondire la questione: mi prescrissero degli esami con i raggi X e feci anche la prima tomografia computerizzata, dalla quale non risultò nulla di anomalo (con il senno di poi so che il motivo era che la malattia si trovava ancora allo stadio iniziale).

Passarono altri anni e iniziarono ad immobilizzarsi le prime vertebre cervicali. Gli ortopedici in Italia e in Germania, ai quali mi sono rivolto, non avevano risposte concrete; solo uno di loro, in Germania, arrivò a proporre un’operazione chirurgica, ma la cosa mi sembrava solo un tentativo e rinunciai. Anzi, a quel punto tirai proprio i remi in barca e cominciai a cercare forme palliative per affrontare almeno il dolore, tipo l’agopuntura e la fisioterapia: nei primi tempi devo dire che tutto questo ha alleviato, effettivamente, le mie sofferenze e riabilitato almeno in parte i movimenti ma, scoprii col tempo, era solo un effetto temporaneo.

Ricordo le visite presso medici più o meno specializzati, nell’arco di 12 anni, in Germania, Africa e Italia: complessivamente ho fatto tre volte le lastre e quattro la tomografia computerizzata, oltre a decine di altre visite specialistiche. Giunto al tredicesimo anno di malattia (anche se per me erano ancora solo dolori ed immobilizzazione progressiva, senza una ragione apparente) e stanco delle non-risposte sin qui ricevute dai medici, ho deciso di recarmi da un neurologo in pensione. Costui mi ha guardato, mi ha visitato e subito suggerito di fare delle analisi del sangue specifiche per evidenziare eventuali problemi reumatici. Ci aveva visto giusto (e fu anche piuttosto rapido) perchè tre giorni dopo - a 13 anni dall’inizio dei primi sintomi - scoprii da quale malattia sono affetto: si tratta del Morbo di Bechterew o Spondilite Anchilosante.

Io e mia moglie leggiamo su internet di cosa si tratti e ci rendiamo immediatamente conto che lo stato in cui si trovava la progressione della malattia la rendeva incurabile ed inevitabilmente degenerativa; inoltre c’era (e c’è tutt’ora) uno scarsissimo interesse per la ricerca da parte delle industrie farmaceutiche, in quanto il morbo di Bechterew è una malattia statisticamente molto rara e quindi poco "massimizzabile" in termini di profitti: in altre parole, non ci sono medicine specifiche ma solo palliativi per sopportare il dolore. L’avere scoperto cosa avevo mi ha però aiutato a comprendere meglio (non sempre, intendiamoci) alcuni miei stati d’animo e soprattutto ad avere una risposta al dolore che mi portavo addosso da oltre un decennio. E tutto questo mi è servito per reagire positivamente alla brutta notizia.

I problemi effettivi causati da questa patologia sono la stanchezza e il dolore continuo, anche se personalmente penso che in fondo ci si abitua a tutto: c’è sempre di peggio nella vita e mi sento fortunato di essere ancora fisicamente attivo (anche se limitato nei movimenti).

Due anni dopo aver scoperto il nome della patologia, venni a conoscenza che presso il centro studi dell’ospedale di Berlino "Klinikum Steglitz" la casa farmaceutica Novartis aveva attivato uno studio per persone affette proprio da queste malattie reumatiche: i pazienti venivano sottoposti, in particolare, a delle infusioni di beta-bloccanti TFN, e tale esperimento si è protratto nei mesi a venire. Questo trattamento è però estremamente costoso, fino a 2000 euro a infusione. 

Non nascondo che subito dopo le infusioni il dolore passava per qualche giorno e anche la stanchezza svaniva; nonostante questo, però, notai che non si riacquistava la mobilità delle vertebre, le cui cartilagini si erano irrimediabilmente ossificate.

Procedendo con lo studio nel corso dei mesi, nonostante l’aumento delle dosi di beta-bloccanti il problema si ripresentava sempre prima. Successivamente, a circa un anno dall’inizio delle infusioni, decisi di interrompere lo studio perchè sopraggiunsero alcuni cambiamenti metabolici nel mio organismo e, questa fu la mia impressione di allora: temevo che, andando avanti con queste cure, tali cambiamenti sarebbero stati molto più rapidi e distruttivi della malattia stessa: sono infatti diventato intollerante (direi quasi allergico) a tutti i prodotti contenenti vitamina C. 

Quindi, visto che - come mi spiegarono i medici - avrei dovuto proseguire la cura per altri trent’anni, mi sono detto: «Se dopo appena un anno mi succede questo, immagina tra cinque come starò». È un rischio, quello degli effetti collaterali ignoti, che non voglio prendermi, almeno fino a che i miei figli sono piccoli. Preferisco il lento degenerare della malattia.

Per affrontare tutto questo pE non usate la ercorso sicuramente è stato di grande aiuto avere una famiglia unita, la mia, a maggior ragione se è questa che ha bisogno di te e non viceversa, e un lavoro che ti piace: tutto questo mi stimola infatti a non piangermi addosso e mi dà sempre traguardi da raggiungere. Chiaramente la mia vita, sia a livello fisico generale, che - per esempio - nelle attività ludiche, è cambiata radicalmente (e me ne dispiace molto per i miei figli): alcuni giochi o attività sportive particolari non posso più farli. I miei familiari lo hanno accettato e fortunatamente non me lo fanno pesare più di tanto.

Nella vita di tutti i giorni, se posso permettermi un consiglio, suggerisco di cercarsi un lavoro che abbia una componente di movimento fisico (perchè questo rallenta il fenomeno dell’anchilosamento) e di seguire una dieta ricca di verdure e povera di carne. Suggerirei anche, a chi ci riesce, di smettere di fumare, perchè l’anchilosamento delle cartilagini della cassa toracica rende la respirazione difficile e certamente avere i polmoni saturi di catrame e nicotina non aiuta. 

Penso che nella vita ci sia di peggio e, comunque sia, il corpo e la vita terrena sono solo un passaggio temporale: è meglio quindi dare priorità e spazio alle cose veramente importanti in questo momento terrestre, rifuggendo le futilità. Evitate di essere depressi e depressivi: se si è stanchi, e succede spesso, si tiri fuori un po’ di coraggio per avanzare, sempre avanzare. In fondo il "bello" di questa malattia è che alla fine puoi fisicamente guardare solo avanti, non puoi più voltarti, e quindi guardi sempre al futuro! E quando sarai vecchio potrai guardare solo in basso, ma tanto allora chi se ne frega, ormai la vita l’hai vissuta. 

Per le patologie croniche non devono esistere parole come "compassione" o "depressione", queste sono per le persone "normali": un vero malato combatte senza nascondersi mai. Non esiste l’Alieno, esiste chi vuole crearsi l’Alieno e ha bisogno di un nemico: personalmente la malattia l’ho fatta diventare un’amica e così, inevitabilmente, non è più un alieno. L’ho semplicemente accettata: sono io, e sono fatto così. Chi mi vuole mi accetta. Chi non vuole...problema suo. Non so esattamente cosa sia il "vivere serenamente": penso sia un problema non legato ad una malattia, bensì proprio al modo di essere di ognuno di noi. Direi che è quasi un aspetto genetico" A volte ci riesco, a viver sereno, altre non lo voglio proprio ma, in fondo, sono sempre io a deciderlo.

Dico sempre che è preferibile pensare agli aspetti positivi, al lato positivo di tutto: questo però è fondamentale, direi, non solo per il malato cronico ma anche per le persone sane.

(testimonianza raccolta da Andrea Spinelli Barrile)

Data ultimo aggiornamento 16 dicembre 2015
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Tags: malattie reumatiche



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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