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Neanderthal e Homo Sapiens, 8’000 anni di convivenza (e il 2% di DNA in comune)

Illustrazione di Gorodenkoff (agenzia iStock)

di Agnese Codignola

Gli esseri umani che oggi popolano il pianeta Terra appartengono a una specie di ominidi chiamata Sapiens che, secondo quanto scoperto negli ultimi decenni, ha via via rimpiazzato le altre specie di ominidi presenti e, in primo luogo, quella dei Neanderthal, essendo più adatta a sopravvivere. Circa 500.000 anni fa, in Africa, si è avuta una prima grande separazione, che ha visto i Neanderthal seguire una propria via al di fuori dell’Africa, in Eurasia per almeno 300.000 anni, e altri ominidi tra i quali i Sapiens percorrere strade differenti, restando però in Africa. Poi, per motivi probabilmente ambientali, in un qualche momento tra 60.000 e 40.000 anni fa (secondo gli ultimi dati non più tardi di 43.500 anni fa), anche i Sapiens si sono mossi verso l’Eurasia e, una volta arrivati lì, hanno incontrato i Neanderthal.

Su questo incontro si interrogano da decenni i paleogenetisti, nel tentativo di capire meglio che cosa sia successo. E oggi quanto avvenuto è più chiaro che mai, grazie a nuovi studi, che hanno permesso di descrivere meglio le complesse relazioni intercorse. Le ibridazioni, cioè le mescolanze genetiche tra Neanderthal e Sapiens sono state infatti diverse da come le si immaginava: molto più prolungate nel tempo, e molto più frequenti. E ciò spiega perché ancora oggi i vincitori Sapiens abbiano nel loro patrimonio genetico una percentuale di geni dei cugini Neanderthal che va all’incirca dall’uno al due per cento, e perché in alcune zone del mondo come i paesi dell’Est asiatico, dove i Neanderthal sono rimasti più a lungo, tale percentuale sia maggiore, e arrivi anche al 20%. Con conseguenze che si riflettono – in modo ancora in gran parte da scoprire – sulla salute degli uomini di oggi.

STUDI SEMPRE PIÙ RAFFINATI - Le difficoltà nel ricostruire un albero genealogico e una storia che risalgono a decine di migliaia di anni fa sono evidenti, e derivano soprattutto dall’esiguità dei campioni arrivati a fino a noi in condizioni tali da poter essere studiati. Ma le nuove tecniche di sequenziamento genico oggi permettono indagini davvero impensabili anche solo una quindicina di anni fa, e stanno letteralmente riscrivendo la storia. È andata così anche per due studi pubblicati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, rispettivamente su Science e su Nature, che hanno portato a una datazione piuttosto precisa – e sorprendentemente coincidente - del momento in cui i Neanderthal e i Sapiens si sono incontrati, e hanno iniziato ad avere rapporti sempre più stretti, fino a dare vita a ominidi ibridi: 47.000 anni fa (l’intervallo era stato in precedenza fissato in 51-41.000 anni fa, ora è molto più specifico). La convivenza è andata avanti per almeno 7-8.000 anni. Ma vediamo come i paleogenetisti lo hanno capito.

LO STUDIO DELLA RIVISTA SCIENCE - A questa ricerca hanno contribuito gli studiosi dell’Università della California di Berkeley, e gli esperti dell’Istituto per l’antropologia evoluzionistica del Max Planck Institute di Lipsia (forse il più prestigioso al mondo per questo genere di studi), dove si trova anche Svante Pääbo, premio Nobel nel 2022 proprio per le sue scoperte nel campo. Allo studio hanno partecipato anche i ricercatori della Rochester University di New York. Insieme, i paleontologi hanno sequenziato, con un dettaglio mai raggiunto prima, il genoma di 59 Sapiens in parte già studiati in passato, in parte mai analizzati, e vissuti in diverse zone (Europa, Asia Occidentale e Centrale) in un arco di tempo compreso tra 45.000 e 2.200 anni fa, e quello di 275 persone contemporanee che vivono nelle stesse zone. Quindi hanno applicato ai dati un modello diverso da quelli usati in passato, che non prevedeva passaggi bruschi tra una specie e l’altra, ma, appunto, una fase di coesistenza e ibridazione. I ricercatori sono così giunti a capire che tale fase non solo è esistita, ma è durata non meno di 7-8.000 anni, ovvero almeno un centinaio di generazioni. E ciò spiega perché, nonostante i Sapiens abbiano finito col diventare predominati assoluti, il loro DNA contenga tracce ben visibili di quello dei Neanderthal e, in alcune zone asiatiche, di quello dei Denisovan, un altro ceppo di ominidi.

INVESTIGATORI DEL DNA - Per comprendere ancora meglio com’è andata, i paleogenetisti hanno studiato nel dettaglio alcune "zone" del DNA moderno del tutto prive di geni dei Neanderthal, chiamate deserti arcaici, e hanno dimostrato che esse si sono formate molto precocemente, all’epoca delle prime ibridazioni tra Sapiens e Neanderthal. I primi reperti di questo tipo arrivano infatti da ritrovamenti delle grotte di Oase, in Romania, di Ust’-Ishim in Russia, di Zlatý kůň in Repubblica Ceca, di Tianyuan in Cina e di Bacho Kiro in Bulgaria, e sono tutti databili attorno a 40.000 anni fa. Probabilmente, il motivo è che i Neanderthal avevano alcuni geni dannosi per i Sapiens, quando non mortali, e i Sapiens hanno rapidamente eliminato dal proprio DNA tali geni, mantenendo invece alcune sequenze che si erano rivelate utili. Un esempio? Quelle emerse durante il Covid, oggi più presenti nelle popolazioni asiatiche, che sembrano averle protette dagli esiti più mortali, perché assicuravano una maggiore reattività del sistema immunitario alle infezioni virali.

Tra l’altro, la ricostruzione genetica proposta coincide con i ritrovamenti archeologici, che vanno nella stessa direzione.

Un’altra scoperta interessante è stata quella relativa al cambiamento nel tempo anche del genoma dei Neanderthal, che hanno via via aumentato i geni associati al sistema immunitario e al metabolismo, e cambiato quelli del colore della pelle, prima molto scura (spiegabile con la provenienza africana) e poi via via più chiara.

LO STUDIO DI NATURE - In questo caso, altri ricercatori del Max Planck Institute di Lipsia hanno lavorato ancora sui dati dei reperti della grotta di Zlatý kůň, in Repubblica Ceca, dove è stato ritrovato il cranio completo di un individuo Sapiens di 45.000 anni fa meglio conservato al mondo, il cui DNA era già stato sequenziato,  chiamato Ranis13. Finora però non era stato possibile saperne molto di più, perché non era stato ricostruito il contesto. Per tale motivo, i paleogenetisti si sono concentrati su altri reperti di Sapiens, trovati a soli 230 chilometri, in Germania, a Ilsenhöhle sul Reno, anch’essi risalenti a 45.000 anni fa. Grazie a indagini più complete, i ricercatori hanno dimostrato che in quella grotta c’erano i resti di almeno sei persone, tre femmine e tre maschi, due delle quali bambini. Inoltre tra loro c’erano una madre e un figlio, e anche gli altri erano imparentati, anche se più alla lontana. Approfondendo poi le analisi su un cranio di Zlatý kůň, i ricercatori hanno fatto una scoperta sorprendente: il Sapiens di Zlatý kůň e due di quelli di Ilsenhöhle erano anch’essi parenti alla lontana (di quinto-sesto grado). E questo dimostra che le popolazioni del tempo, costituite probabilmente da centinaia di individui, si muovevano per decine se non centinaia di chilometri, e avevano rapporti stretti con i loro simili.

Ma ciò che più interessa, ai fini della coesistenza tra le due specie, è che questa particolare popolazione di Sapiens non sembra essersi ibridata con i Neanderthal contemporanei, ma con Neanderthal precedenti, risalenti a prima di 45.000 e fino a 49.000 anni fa. La coesistenza, che in seguito è venuta meno, c’è quindi stata, anche in questo caso, attorno ai 47.000 anni fa, e si è protratta per alcuni millenni. Poi, attorno ai 45.000 anni, i Sapiens tedeschi e cèchi si sono separati dai Neanderthal.

Le due ricerche giungono quindi, per vie diverse, alla stessa conclusione: attorno a 47.000 anni fa le due specie coesistevano, e lo hanno fatto a lungo, per almeno cento generazioni, scambiandosi sequenze di DNA. Poi ha prevalso Sapiens, che però conserva nel suo genoma tracce di quell’antichissima convivenza.

Fino dalla sua comparsa sulla Terra, l’uomo è frutto di ibridazioni e mescolanze, come dimostra la composizione eterogenea del suo DNA: ecco perché per gli scienziati il concetto di “razza” non ha alcun senso.

Data ultimo aggiornamento 7 febbraio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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