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Maxi-studio sul Long Covid:
ecco finalmente i "marcatori"

di Agnese Codignola*

Il Long Covid, la sfuggente sindrome post-virale che, secondo le ultime stime, colpisce sei persone su cento tra coloro che hanno contratto il Covid, e che ha un’incidenza maggiore tra chi non si è vaccinato, tra chi è stato infettato da una variante omicron, e da chi ha avuto una o più reinfezioni, ha dei tratti più definiti, grazie a un enorme lavoro di sistematizzazione svolto nell’ambito del grande progetto pubblico RECOVER Initiative (Researching COVID to Enhance Recovery) dai medici e ricercatori del Langone Health, un ospedale di eccellenza legato alla New York University (Stati Uniti).

Fino dai primi mesi dopo l’arrivo del virus SARS-CoV-2, si è iniziato a notare che molte persone, a prescindere dalla gravità dell’infezione, non riuscivano a guarire e anzi, mostravano un continuo scadimento della qualità di vita, dovuto a centinaia di sintomi differenti di cui nessuno conosceva né la causa né, tantomeno, le possibili cure. Nel 2021 i National Institutes of Heath statunitensi, su mandato del presidente Joe Biden, hanno così lanciato il grande programma nazionale RECOVER, finanziato con oltre 1,5 miliardi di dollari, affinché fossero creati, in tutto il Paese, centri specializzati che potessero al tempo stesso accogliere chi soffriva di Post-Acute Sequelae of SARS-CoV-2 Infection (o PASC, il nome scientifico attribuito alla sindrome Long Covid) e raccogliere informazioni e campioni biologici per studiare e conoscere meglio la sindrome.

Dopo pochi mesi, i risultati hanno iniziato a materializzarsi sulle riviste scientifiche, sotto forma di studi che iniziavano a chiarire alcuni aspetti sia relativi ai sintomi, al tempo stesso vaghi, ma anche caratteristici, sia ai meccanismi biologici, tuttora in gran parte oscuri, sia agli approcci terapeutici che via via si iniziavano a sperimentare.

Lo stesso, nel frattempo, avveniva a opera di altri gruppi di ricerca sparsi in tutto il mondo, ciascuno dei quali si è occupato di singoli aspetti, contribuendo così in misura più o meno rilevante a comporre il puzzle.

Ora però uno studio proprio della serie RECOVER, pubblicato su JAMA, fornisce un quadro generale che dovrebbe rendere tutto il lavoro più facile, perché ogni dato dovrebbe essere riconducibile a una visione d’insieme, e riferibile a criteri specifici. Gli specialisti newyorkesi hanno infatti passato al setaccio la situazione di poco meno di 10.000 pazienti di 85 centri in 33 stati americani e a Porto Rico, e individuato, inizialmente, 37 tra i sintomi più comuni. Quindi, applicando valutazioni statistiche, hanno selezionato i 12 più comuni: un malessere che coglie dopo un’attività fisica anche minima chiamato post-exertional malaise (e che spiega perché, a differenza di altre situazioni nelle quali è necessario recuperare energie e tonicità, quasi sempre l’attività fisica nelle persone con il Long Covid porta a un peggioramento, e non a un miglioramento, ed è quindi generalmente sconsigliata), la fatigue, cioè un affaticamento molto intenso e patologico noto anche in altre malattie e condizioni, l’annebbiamento mentale o brain fog, i tremori, i sintomi gastrointestinali, le palpitazioni, le difficoltà in ambito sessuale, la perdita dell’olfatto e del gusto, la sete, la tosse cronica, il dolore al petto e i movimenti anomali e non controllati.

Attribuendo un punteggio a ciascuno di essi, e verificando poi quanti, tra i 10.000 pazienti, rientravano nella definizione, gli autori hanno visto che circa  uno su quattro aveva punti sufficienti, e cioè rientrava nei criteri diagnostici. Tutto ciò ha portato a un passo ulteriore, l’identificazione dei cosiddetti cluster (letteralmente, grappoli). Fino dai primi mesi, infatti, c’è stato chi ha segnalato che sembravano esserci raggruppamenti di sintomi ricorrenti, per esempio in ambito gastrointestinale, o dermatologico, o polmonare-cardiaco e così via. Finora si era trattato di ipotesi, ma questo studio sembra confermare l’esistenza dei cluster: ce ne sarebbero almeno quattro, e piuttosto evidenti.

Questo grande sforzo di sistematizzazione non è utile solo ai ricercatori, ma anche ai clinici, perché consente di velocizzare le diagnosi, che ancora oggi sono spesso tardive, e di cercare strategie terapeutiche coerenti.

In più potrebbe rivelarsi cruciale per la programmazione e lo svolgimento degli studi clinici sulle terapie, che non possono prescindere da popolazioni almeno relativamente omogenee, se si vuole vedere un effetto statisticamente significativo e non viziato da troppe variabili. Del resto, le sperimentazioni cliniche targate RECOVER dovrebbero iniziare entro la fine dell’anno, e questo lavoro rappresenta l’ineludibile base su cui condurli.

Ci sono stati, nel tempo, altri studi e metanalisi che hanno cercato di sistematizzare i problemi legati al Long Covid, ma probabilmente quello del Langone è il più imponente, da un punto di vista numerico; di solito, infatti, sono analizzati i dati di poche decine di pazienti, e mai di migliaia. Per tale motivo è importante sottolineare che si conferma quanto già emerso, e cioè che la fatigue, il brain fog, le palpitazioni e i dolori al petto, la distorsione olfattiva e i disturbi gastrointestinali sono tra le manifestazioni più frequenti, insieme alla depressione, che si possono presentare da sole o insieme a decine di altre.

Per quanto riguarda i meccanismi, non ci sono ancora certezze, ma l’ipotesi che ha preso sempre più piede è che si tratti di un malfunzionamento del sistema immunitario, che non riesce a tornare alla normalità e tiene in vita uno stato infiammatorio cronico, quando non autoimmunitario, come confermato anche in un altro studio sulla rivista scientifica BMC Infectious Diseases, questa volta del Cedars Sinai Hospital di Los Angeles, condotto su 245 pazienti, che candida proprio le anomalie immunitarie al ruolo di marcatori della malattia.

Ci vorrà ancora del tempo, ma l’accelerazione evidente nelle conoscenze sul Long Covid data dall’Iniziativa RECOVER dimostra che cosa significa sostenere la ricerca indipendente e di base. Uno sforzo tanto più cruciale, quando ad attenderne i risultati ci sono, in tutto il mondo, milioni di persone che non stanno affatto bene e per le quali, a oggi, non esistono cure né protocolli di trattamenti specifici, ma solo tentativi abbastanza artigianali di migliorare la loro condizione.
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* autrice del libro "Il lungo Covid", pubblicato da UTET

Nella foto in alto, gli sforzi fisici diventano difficili, o impossibili, in certi casi, per le  persone con il Long Covid (foto dell’agenzia iStock)

Data ultimo aggiornamento 4 giugno 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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