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Malattie mentali, attività fisica come farmaco

di Stefania Moro

L’attività fisica aiuta a curare i disturbi mentali, compresi quelli più gravi. Questa consapevolezza, basata sull’esperienza pratica, trova ora una consacrazione scientifica autorevole da parte della European Psychiatric Association (EPA, la più ampia associazione di psichiatri in Europa), che ha diffuso una serie di nuove linee-guida, basandosi sullo studio realizzato da un’équipe internazionale di psichiatri, psicologi, medici sportivi e fisioterapisti. Il team multidisciplinare ha condotto una revisione sistematica di tutta la letteratura scientifica di alto livello disponibile sull’argomento, pubblicando poi i risultati finali di questa “meta-review” (come si dice in termine tecnico) sulla rivista European Psychiatry (edita dalla stessa EPA). Secondo questi risultati (che sono poi diventati la base delle nuove linee guida della European Psychiatric Association), l’esercizio fisico ben regolamentato e “strutturato” può ridurre i sintomi dei disturbi mentali e migliorare le capacità cognitive, oltre alle condizioni fisiche generali. In particolare, i ricercatori hanno potuto verificare che almeno due ore e mezzo di attività fisica aerobica moderata alla settimana, suddivise in due-tre giorni diversi, riducono i sintomi della depressione e della schizofrenia, e migliorano le capacità cognitive e la salute del cuore e dell’apparato respiratorio nelle persone schizofreniche. Per questo - suggerisce l’EPA - l’esercizio fisico dovrebbe entrare a far parte delle terapie standard per i pazienti con gravi malattie mentali, insieme ai farmaci e alla psicoterapia.

Abbiamo parlato di queste nuove linee guida con il professor Federico Schena, direttore vicario del Dipartimento di Neuroscienze Medicina e Movimento dell’Università di Verona, la cui Facoltà di Scienze Motorie è ottava al mondo nella classifica ARWU (Academic Ranking of World University), un’eccellenza nel panorama internazionale. 

Che cosa è cambiato nella ricerca scientifica applicata al movimento?
«Fino a qualche tempo fa era stata focalizzata la correlazione tra attività motoria e produzione di endorfine. Da una decina di anni, tuttavia, sono diventate sempre più chiare le evidenze che portano a considerare l’importanza di livelli di regolazione più diffusi e generali sui diversi apparati dell’organismo. Sebbene non vi siano ancora dati definitivi, i risultati ottenuti pongono in luce sia un effetto di neuroplasticità legato alla maggiore attività sinaptica necessaria per svolgere attività fisica, sia la presenza di un più elevato grado di efficienza del sistema circolatorio, correlabile - anche a livello cerebrale - con lo svolgimento di esercizio aerobico».

Sulla base dei recenti studi, l’EPA ha addirittura stabilito la centralità dell’attività fisica nella pratica psichiatrica del futuro.
«Non poteva essere altrimenti. Nei soggetti che soffrono di disturbi psichici e patologie psichiatriche, l’impatto di queste nuove acquisizioni è ancora più evidente: gli studi misurano modificazioni significative di neurotrasmettitori e biomarcatori dopo programmi di esercizio fisico di maggiore durata e minore intensità. Si punta allora non su esercizi ad alto impatto, ma su un’attività regolata di intensità graduata e tipologia variabile, che agisce con modalità simili a quelle di un farmaco. E dunque può ridurre la necessità di apporto farmacologico e svolgere una funzione preventiva essenziale».

Facciamo un esempio che ci aiuti a capire che cosa capita al cervello...
«Anche in un compito motorio semplice come il camminare, noi richiediamo che il cervello produca e coordini un segnale di attivazione generale e ben bilanciato, che non viene dall’esterno (farmaco), ma al contrario è endogeno. Il lavoro meccanico è ovviamente di natura muscolare, ma mette in azione prima di tutto il sistema di controllo neurale, per scegliere dove e come camminare, poi determina l’invio di stimoli elettrici ai muscoli necessari al cammino, ma anche al cuore e ai polmoni che garantiscono l’apporto di sangue ossigenato. In più, viene attivata la liberazione di acidi grassi o glucosio dai depositi per fornire l’energia alla contrazione, e  prende il via anche la produzione di una lunga serie di sostanze di regolazione che raggiungono tutto l’organismo. Partendo da queste premesse, qui a Verona abbiamo condotto un progetto basato sul cammino (progetto Physico - in collaborazione con il Centro di Salute Mentale dell’Unità Locale Socio Sanitaria 9  e con il centro OMS Mental Health dell’Università), introducendolo tra le iniziative di promozione di corretti stili di vita per pazienti psicotici frequentanti il centro, che è attualmente stato reso sistematico e realizzato in tutto il territorio della ULSS».

Il vostro Dipartimento di Neuroscienze Medicina e Movimento lavora da molti anni sul tema dell’attività motoria applicata alla salute mentale. Dove l’avete vista funzionare di più?   
«Grazie a una collaborazione virtuosa tra Amministrazione comunale, ULSS e Università, abbiamo iniziato a condurre ricerche e progetti sul territorio già a fine anni Ottanta, partendo da una proposta di corsi di attività motoria per la popolazione anziana. In quasi 30 anni di attività e tra le oltre 20’000 persone che hanno usufruito del programma La salute nel Movimento, abbiamo osservato un significativo effetto sui disturbi del tono dell’umore (in particolare sindromi depressive) che colpiscono spesso soprattutto le donne in età avanzata, con un evidente miglioramento della qualità della vita, anche accompagnata da un drastico abbandono delle necessità terapeutiche. Occupandoci di anziani, è divenuto presto necessario dare una risposta anche a coloro che hanno  problemi psichici di varia natura e gravità. In questi anni sono stati allora messi a punto protocolli specifici per contrastare le situazioni patologiche più frequenti e per offrire interventi mirati». 

La specificità degli interventi è fondamentale...
«Assolutamente sì: l’attività motoria non può più essere considerata una funzione semplice. Servono programmi mirati, preceduti da una valutazione adeguata e somministrati da esperti formati alle nuove evidenze e metodologie. Su questo aspetto in Italia (e in altri Paesi) c’è ancora molto da lavorare, per affrancarsi da un approccio che è ancora troppo generico: non basta più dire "faccia un po’ di movimento"... Un tema emergente, a questo proposito, è la relazione tra l’esercizio fisico e i disturbi alimentari: studi condotti dai ricercatori del nostro gruppo hanno permesso di osservare che le pazienti anoressiche tendono a sottostimare l’attività fisica svolta ed è quindi necessaria un’educazione motoria mirata alla corretta percezione del movimento, anche al fine di migliorare il recupero ponderale.
Più di recente, abbiamo sviluppato programmi di ricerca sull’effetto dell’esercizio fisico nei deficit cognitivi di vario grado (dalla MCI, cioè dal decadimento cognitivo lieve, all’Alzheimer), dimostrando che programmi mirati sono in grado di rallentare l’evoluzione della patologia, in primo luogo per gli effetti di miglioramento vascolare, ma anche perché mitigano alcuni sintomi nei casi già conclamati.
Strettamente associato al tema delle demenze senili, ma con un più ampio spettro di ricadute nella realtà quotidiana di molte famiglie, è l’incremento di rischio da burn out (esaurimento emotivo), soprattutto legata a stress da accudimento familiare. È stato recentemente dimostrato che chi riesce a mantenere una regolare attività fisica di tipo aerobico riduce questo rischio e addirittura mostra indici di minore invecchiamento». 

Data ultimo aggiornamento 21 settembre 2018
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Lo sport? Ecco perché aiuta a difenderci meglio


Tags: depressione, malattia di Alzheimer, schizofrenia



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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