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Malattie autoimmuni, cresce
il numero di farmaci e strategie

di Paola Scaccabarozzi

Quello delle malattie autoimmuni è un mondo complesso e in continuo divenire, sia dal punto di vista diagnostico, sia per quanto riguarda le cure. Si tratta di una storia terapeutica che parte, sostanzialmente, dagli anni Sessanta (in Italia la prima cattedra di Reumatologia risale al 1967 presso l’ospedale Gaetano Pini di Milano) con l’utilizzo di farmaci chemioterapici usati in campo oncologico o nel trattamento del rigetto dei trapianti, e che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni. Ma qual è adesso lo stato dell’arte e quali le principali novità terapeutiche? Ne abbiamo parlato con il professor Pierluigi Meroni, direttore del Laboratorio sperimentale di ricerche di immunologia clinica e reumatologia dell’Istituto Auxologico di Milano.

Dunque, professore, quali sono i farmaci maggiormente impiegati per la cura delle malattie autoimmuni? Malattie che - lo ricordiamo - sono moltissime, hanno caratteristiche differenti, ma anche un comune denominatore rappresentato dal danno infiammatorio innescato dalla risposta del sistema immunitario contro costituenti propri dell’organismo...  
«Si tratta di malattie, come ad esempio l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico - risponde Meroni - che non hanno in generale una cura definitiva (nella maggior parte dei casi, ma ne esiste una minoranza che può invece andare in remissione completa), ossia la possibilità di essere definitivamente sconfitte dai farmaci, ma possono essere ben controllate attraverso le cure. Esistono a questo proposito diverse classi di farmaci che vengono sempre più implementati, offrendo così allo specialista una possibilità di scelta sempre più articolata, in linea con l’approccio della medicina personalizzata.
Come detto precedentemente, negli anni Sessanta/Settanta è stato sfruttato l’effetto immunosoppressore di farmaci citostatici (ad esempio ciclofosfamide, azatioprina, metotressato) che inibivano la rapida proliferazione delle cellule del sistema immune e ne bloccavano la risposta indesiderata. Inoltre si usava il cortisone a dosaggi e per tempi maggiori di quanto si faccia adesso, al fine di ridurne gli effetti collaterali».

Quali sono allora, professore, queste classi di farmaci?  
«Vengono utilizzati in reumatologia farmaci biologici (si distinguono da quelli cosiddetti sintetici perché, mentre questi ultimi sono creati attraverso processi chimici, i biologici vengono realizzati a partire da cellule di organismi viventi o loro componenti grazie all’impiego di tecniche avanzate di biologia molecolare) che hanno il compito di bloccare i principali mediatori infiammatori delle risposte immuni: le citochine infiammatorie. Nello specifico, mi riferisco ai TNF Alfa inibitori, che svolgono un ruolo centrale in numerose patologie infiammatorie croniche, come l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e la spondilite anchilosante, e hanno il compito di bloccare l’infiammazione. 

Gli inibitori del TNF-α attualmente disponibili fanno parte di due classi differenti: gli anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena). e i recettori solubili. Entrambe le molecole bloccano il TNF Alfa impedendo che inneschi e sostenga l’infiammazione:

- Etanercept (Enbrel) (recettore solubile)
- Adalimumab (Humira) (monoclonale)
- Infliximab, (Remicade) (monoclonale)
- Golimumab (Simponi) (monoclonale)
- Certolizumab (Cimzia) (monoclonale). 

Se il "capostipite" di queste molecole risale agli anni Novanta, successivamente sono stati messi a punto altri medicinali con caratteristiche analoghe, che hanno ampliato sempre più le possibilità terapeutiche e abbattuto anche i costi per il Servizio Sanitario Nazionale del 30-40%. Sono i cosiddetti “biosimilari”, ossia farmaci simili agli originali ma costituiti da molecole differenti, sintetizzate con metodologie almeno in parte modificate».  

Esistono, professore, altre armi terapeutiche nell’arsenale dei farmaci che sta diventando via via sempre più consistente? 
«Ci sono gli anticorpi monoclonali diretti contro altre citochine infiammatorie. Sono stati sviluppati dopo gli anti-TNF, intorno agli anni 2000:  

- anti IL-6 Receptor (Tocilizumab – RoActemra)
- anti-IL6 (Sarilumab – Kevzara)

Abatacept - Orencia è, invece, un farmaco differente. Non è infatti un anticorpo, ma una proteina di fusione composta dal frammento Fc di una immunglobulina IgG1 e dalla proteina CTLA-4. Questo complesso proteico si aggancia a un recettore sulla superficie dei linfociti T, bloccandone l’attivazione. Il risultato finale è una soppressione delle risposte immuni mediate dai linfociti T e coinvolte nella maggioranza delle malattie autoimmuni.
Anche in questo caso, nel corso degli anni il pool del pannello dei farmaci a disposizione è stato implementato. Ad esempio è stato validato l’utilizzo di altri anticorpi monoclonali diretti verso citochine differenti, tra il 2005 e il 2010: 

- anti-IL17 (Ixekizumab  - Taltz;  Secukinumab - Cosentyx),
- anti-IL12/23 (Ustekinumab – Stelara).

L’efficacia di questi farmaci è stata inizialmente validata in campo dermatologico (ad esempio, per la psoriasi), ma si è poi estesa anche ad altre patologie infiammatorie immuno-mediate, quali artrite psoriasica, spondilite e malattie infiammatorie intestinali. Più recentemente è stata dimostrata anche l’efficacia di Ustekinumab in corso di lupus eritematoso sistemico. Questa evoluzione è garanzia di uno sviluppo del nostro approccio terapeutico sintonizzato alla singola patologia e nell’ottica di una medicina sempre più personalizzata.

Ci sono poi gli anticorpi monoclonali attivi sul comparto dei linfociti B. Si tratta di farmaci, come l’Anti-CD20 (Rituximab – MabThera) inizialmente utilizzati in altri settori della medicina. Il Rituximab, realizzato in modo da riconoscere l’antigene CD20, che è presente sulla superficie dei linfociti B, viene infatti utilizzato da diversi anni in oncoematologia per la cura dei linfomi. Quando il Rituximab aderisce all’antigene si ottiene la morte della cellula, con conseguente beneficio per la cura del linfoma, dato che i linfociti B cancerosi vengono distrutti. La distruzione dei linfociti B non solo riduce la possibile produzione di autoanticorpi potenzialmente dannosi per i nostri tessuti, ma blocca anche la produzione di mediatori infiammatori e in generale le risposte immuni. Rituximab è efficace in corso di artrite reumatoide ed è capace di ridurre l’infiammazione a livello della membrana sinoviale nelle articolazioni. Rituximab viene anche utilizzato per la cura del Lupus Erimatoso Sistemico (LES) o per altre patologie autuimmuni, come la Porpora Trombocitopenica Immune (piastrinopenia su base autoimmune)  

Più recente è invece l’utilizzo, soprattutto per il Lupus, di un anticorpo monoclonale diretto contro un fattore di crescita dei linfociti B (BLys – B Lymphocyte stimulator) (Belimumab – Benlysta) che è il capostipite di una nuova classe di farmaci, gli inibitori BLyS-specifici. Questo anticorpo monoclonale inibisce l’attività biologica di BLyS (stimolatore dei linfociti B), una proteina naturale necessaria per la trasformazione dei B-linfociti in plasmacellule B mature.  Normalmente proprio le plasmacellule producono gli anticorpi, linea fondamentale di difesa dell’organismo nei confronti delle infezioni. Nel LES, così come in altre malattie autoimmuni, valori elevati di BLyS possono favorire la produzione di autoanticorpi, che attaccano e distruggono i tessuti dell’organismo stesso». 

E i farmaci di ultima generazione quali sono?
«Sviluppati dopo il 2010, sono i farmaci sintetici inibitori delle Janus kinasi o JAK inibitori: Tofacitinib (Xeljanz), Baricitinib (Olumiant), Peficitinib (Smyraf), Upadacitinib (Rinvoq).
Si tratta di molecole che funzionano inibendo l’attività di uno o più enzimi della famiglia Janus chinasi (JAK1, JAK2, JAK3 e TYK2). Questi enzimi sono in grado di innescare la produzione di diversi mediatori dell’infiammazione.

Ad esempio, le citochine JAK-dipendenti sono ritenute coinvolte nella patogenesi di numerose malattie infiammatorie e autoimmuni, ragion per cui gli inibitori di JAK potrebbero essere utili per il trattamento di una vasta gamma di condizioni infiammatorie. Funzionano, sostanzialmente, bloccando i segnali che dalla superficie della cellula vanno al nucleo per attivare la produzione di mediatori infiammatori (ad esempio citochine). In sintesi, “paralizzano la risposta infiammatoria cellulare”. Sono stati sviluppati per il trattamento dell’artrite reumatoide, ma sulla base della loro efficacia e sicurezza sembrano essere molto promettenti anche per altre patologie autoimmuni e non.
La possibilità di avere a disposizione un pannello di farmaci ad azione farmacologica diversa è la garanzia per un’efficacia e sicurezza di cura migliore, e soprattutto per la possibilità di avere il farmaco giusto per il paziente giusto (medicina personalizzata)». 

Esistono altre strategie di cura?
«Si è compreso che è preferibile “aggredire” con decisione la malattia autoimmune nella sua fase iniziale, piuttosto che iniziare con trattamenti più blandi da potenziare progressivamente in caso di incompleta risposta. Ciò facilita il controllo della patologia e permette anche la riduzione o addirittura sospensione delle cure, e rende meno probabili e gravi i danni d’organo che una malattia autoimmune può comportare.
Di tutto ciò beneficia prima di tutto il paziente (e la sua qualità di vita). Ma non solo, anche dal punto di vista economico è alla fine molto più vantaggioso investire per le cure in fase iniziale piuttosto che accollarsi, in seguito, i maggiori costi indiretti di una malattia più difficile da gestire (assenze dal lavoro, ricoveri, e così via)».

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Nella foto dell’agenzia iStock, ricostruzione al computer di un linfocita e di una serie di interleuchine (citochine), molecole fondamentali del sistema immunitario, che spesso però sono coinvolte anche in problemi di autoimmunità

 

Data ultimo aggiornamento 3 dicembre 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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