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Le nuove armi per frenare la sclerosi multipla

La situazione è cambiata molto negli ultimi anni. Adesso è possibile limitare i danni, prima che diventino irreversibili, grazie a medicinali sempre più mirati. L’ultimo, l’Alemtuzumab, ha ottenuto di recente il via libera

Ammalarsi di sclerosi multipla oggi fa meno paura, rispetto a solo pochi anni fa, e il rischio di finire su una sedia a rotelle è molto più lontano. «Ormai esistono terapie efficaci per frenare la malattia prima che produca danni irreversibili - spiega Maria Giovanna Marrosu, direttore del Centro Sclerosi Multipla dell’ospedale Binaghi di Cagliari, che ha partecipato alla sperimentazione del nuovo anticorpo monoclonale Alemtuzumab. - E’ fondamentale, però, che la diagnosi arrivi con la massima rapidità possibile e che il paziente si sottoponga a esami diagnostici regolari e a cure “preventive”, per evitare che i danni possano ampliarsi, se la risonanza magnetica mostra i segni anche minimi di una ripresa della malattia». 

Diverso è il discorso per chi ha sviluppato la sclerosi multipla quindici o vent’anni fa, quando ancora non c’erano i medicinali che adesso, invece, permettono di rallentare, o di fermare, la malattia. «A tutt’oggi - ammette la professoressa Marrosu - non abbiano ancora farmaci efficaci per riparare le fibre nervose che sono già state danneggiate in modo serio».  Numerosissime ricerche sono in corso, nel mondo. Però i risultati migliori sono arrivati, appunto, per i pazienti che ancora si trovano in una fase iniziale. 

L’Alemtuzumab è una delle più recenti molecole approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) americana per la sclerosi multipla, e negli ultimi quattro-cinque mesi è entrato in commercio in una quarantina di Paesi, Svizzera e Italia comprese (in Italia, solo dal 28 aprile). Questo anticorpo monoclonale è diretto contro una proteina, chiamata CD52, che è presente in grande quantità sulla superficie dei linfociti T e B, le cellule del sistema immunitario che, quando sono alterate, danneggiano il rivestimento (chiamato mielina) delle fibre nervose, dando il via alla sclerosi multipla. Alemtuzumab è in grado di distruggere questi linfociti e di avviare un meccanismo di reset (i tecnici lo definiscono così), cioè di “riprogrammazione” dei nuovi linfociti che l’organismo produce per sostituire quelli eliminati dal farmaco, e che vengono generati senza più le caratteristiche negative capaci di portare alla sclerosi.
«Sono sufficienti cinque somministrazioni consecutive il primo anno di cura - spiega Giancarlo Comi, direttore dell’Istituto di neurologia sperimentale dell’ospedale San Raffaele di Milano - e tre l’anno successivo, per ottenere risultati importanti e duraturi, in pazienti che vanno, però, selezionati con molta attenzione». Il nuovo farmaco è pensato per le persone che presentano una forma recidivante-remittente della sclerosi multipla (cioè quella forme della malattia - la più frequente - che porta a un’alternanza fra momenti acuti e altri di remissione, o assenza apparente). Essendo potente, l’Alemtuzumab è accompagnato anche da effetti collaterali che possono essere “forti”: in particolare, può indurre forme di tiroiditi autoimmuni, o la produzione di autoanticorpi contro le piastrine (gli elementi corpuscolati del sangue che sono fondamentali per la cicatrizzazione). «Fenomeni di autoimmunità indotti dall’Alemtuzumab si presentano nel 25% dei pazienti - dice Comi - ma i casi rilevanti sono, in realtà, molto pochi. Anche per questo le autorità americane hanno dato il via libera, dopo un esame lungo e attento».

Questo nuovo farmaco aumenta l’arsenale (ormai molto nutrito) a disposizione dei medici, per un approccio sempre più personalizzato e precoce della sclerosi multipla. La situazione, come dicevamo, è cambiata moltissimo, negli ultimi tempi. Conferma il professor Comi: «Proprio ieri mi sono arrivati i primi risultati di uno studio che abbiamo condotto al San Raffaele su 1.500 pazienti, curati con farmaci di prima linea dall’anno 2000 al 2010. Li abbiamo divisi in due gruppi e ci siamo resi conto che i pazienti trattati da noi nel periodo 2005-2010 hanno ottenuto risultati migliori (assenza di malattia, rischio di disabilità più ridotto) rispetto alle persone curate dal 2000-2005. Come mai? Con i pazienti del secondo gruppo abbiamo usato gli stessi farmaci, ma iniziando prima».

Negli ultimi anni si è sviluppata una vera e propria “medicina della precisione”, che ha cominciato a tenere conto del diverso status di ogni paziente (non esiste un’unica forma di sclerosi multipla), e ha permesso di utilizzare in modo mirato per quella singola persona l’ampio armamentario di farmaci. Certo, il paziente deve però essere seguito da un Centro di cura avanzato, che sappia amministrare bene le terapie, nei momenti giusti.

«Rispetto al ’92, quando mi sono ammalata io, è tutta un’altra musica - conferma anche Roberta Amadeo, presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. - C’è tantissima ricerca e dobbiamo avere speranza. La bellezza, se possiamo usare questa parola, è l’idea che possa arrivare davvero un futuro migliore».

Data ultimo aggiornamento 29 aprile 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: anticorpo monoclonale, ospedale San Raffaele, sclerosi multipla



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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