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Le “CAR-T cells” usate contro i tumori funzionano anche per curare il lupus?

di Agnese Codignola

Le CAR-T (termine che sta per Chimeric-Antigen Receptor T cells, o cellule T con recettore chimerico per l’antigene), cioè l’immunoterapia basata sui linfociti del paziente geneticamente modificati in laboratorio e poi reinfusi, già approvata a partire dal 2017 per la cura di sei tipi di tumori del sangue, potrebbero presto trovare un’applicazione completamente diversa, ma non meno importante: quella di trattamento contro il lupus eritematoso sistemico, o LES (i linfociti, lo ricordiamo, sono cellule fondamentali del sistema immunitario).

Il LES è considerata una delle malattie autoimmuni più difficili da trattare, perché la reazione "sbagliata" del sistema difensivo dell’organismo, diretta contro il nucleo delle cellule sane e, in particolar modo, contro la doppia elica del DNA, danneggia virtualmente tutti gli organi e tessuti. Contro di esso non esistono cure specifiche, ma solo terapie che cercano di tenere a bada l’iperreattività del sistema immunitario e l’infiammazione generalizzata, o di proteggere gli organi e i tessuti di volta in volta oggetto degli attacchi più acuti degli autoanticorpi (cioè degli anticorpi diretti, per errore, contro l’organismo stesso). Ma questi ultimi hanno origine dai linfociti B del sistema immunitario: gli stessi che, per altre vie metaboliche, danno vita anche ai linfociti o cellule T ingegnerizzate nelle CAR-T. Per questo alcuni dei ricercatori di primissimo piano nella messa a punto dell’immunoterapia antitumorale come Carl June, direttore del Center for Cellular Immunotherapies della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania di Filadelfia (Stati Uniti), considerato lo scopritore delle CAR-T, da tempo pensano – e June l’ha appena ribadito in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Cell - che modificare i linfociti possa essere una strategia vincente anche contro il LES. E ora i risultati ottenuti da un team di immunologi tedeschi di diversi centri universitari sui primi pazienti, pubblicati dalla rivista Nature Medicine, sembrano dargli ragione. Nell’ambito di questo studio, infatti, cinque giovani pazienti (quattro donne e un uomo, età media 22 anni), malati da diversi anni, che non rispondevano a nessuna delle terapie classiche, dopo una singola infusione di CAR-T a basse dosi (finalizzata a neutralizzare tutti i linfociti B) sono entrati in remissione, come si dice nel gergo tecnico, con progressiva scomparsa dei sintomi e azzeramento degli autoanticorpi nel sangue. Nell’arco di tre mesi hanno potuto sospendere tutte le altre cure e, dopo un anno, sono ancora in remissione (quindi senza segni tangibili della malattia), non avendo avuto effetti collaterali degni di nota

Dal punto di vista teorico tutto ciò ha senso: nel LES vi sono solo pochi linfociti B alterati, che danno origine agli autoanticorpi. Se questi vengono eliminati con le CAR T, non si dovrebbero riformare. Questo spiega perché siano sufficienti dosaggi inferiori a quelli delle CAR-T antitumorali (che devono invece eliminare tutte le cellule B, che sono tutte malate) e perché dopo la terapia non ci sia bisogno di reinfondere anticorpi di un donatore, come accade ai pazienti oncologici. L’organismo dei malati di LES e, nello specifico, il loro midollo osseo, tornano a produrre cellule B naive, cioè primarie. Le quali, almeno in teoria, sono sane, e non contengono più quelle che danno origine agli autoanticorpi.

Naturalmente occorreranno casistiche più ampie prima di giungere a una terapia standardizzata e autorizzata, per valutare anche i possibili effetti collaterali negativi (molto frequenti nella terapia oncologica con le CAR-T, che però utilizza dosi molto più alte, come dicevamo, rispetto a quella sperimentata per il LES), ma la strada sembra tracciata.

Data ultimo aggiornamento 4 dicembre 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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