BIOTERRORISMO?
La sindrome dell’Havana non ha lasciato danni permanenti. Ma il mistero resta

L’hanno chiamata sindrome dell’Havana, dal nome della capitale di Cuba nella quale si sono verificati i primi casi segnalati nel 2016, ed è stata oggetto di un’accurata inchiesta giornalistica portata avanti dalla rete televisiva statunitense CBS, con il programma 60 seconds, dal giornale tedesco Der Spiegel e dal sito The Insider la cui conclusione è stata che, con ogni probabilità, si è trattato di un attacco con armi non convenzionali e acustiche, soniche, messe a punto da una squadra specializzata russa. Qualunque cosa sia stata, però, per fortuna, non ha lasciato danni permanenti misurabili dietro di sé.
La malattia, dalla quale sono stati colpiti inizialmente alcuni membri dell’ambasciata statunitense appunto di Cuba e, nei mesi successivi, altri diplomatici di cinque sedi USA nel mondo, si presentava con sintomi quali un ronzio alle orecchie che portava a pensare di perdere l’udito, una sensazione di pressione nel cranio o nell’orecchio o nel petto, uno stress molto acuto, una perdita di equilibrio chiamata persistent postural-perceptual dizziness, o PPPD, disturbi visivi e difficoltà di concentrazione. Tutti questi sintomi, e altri simili, sono però anche tipici delle situazioni di grandissimo stress, e infatti sono spesso accompagnati (e lo erano anche nei funzionari americani) da depressione, da alcune manifestazioni dello stress post traumatico e da un grave affaticamento o fatigue.
Per proteggere la salute dei diplomatici, e individuare eventuali nuove minacce biologiche o di altro tipo, i National Institutes of Health nel 2018 hanno finanziato uno studio su un’ottantina di pazienti, uomini e donne, durato cinque anni, i cui risultati sono stati appena pubblicati su JAMA. E il responso è stato rassicurante: sofisticate analisi del sangue e indagini effettuate con la risonanza magnetica non hanno fatto emergere alcun danno permanente al cervello né alcuna differenza di altro tipo rispetto a quanto osservato in 30 volontari sani simili per età e genere.
Secondo gli autori, potrbbe essere un caso di quello che viene chiamato maladattamento, cioè una risposta non corretta a situazioni stressanti, e anche di suggestione collettiva, diffusasi tra personale che aveva le stesse mansioni in sedi delicate come le ambasciate e i consolati. Conclusioni, queste, molto più tranquillizzanti rispetto a quelle emerse dall’inchiesta giornalistica. Per questo gli studi devono necessariamente andare avamti: è indispensabile avere risposte certe, anche s enon ci sono danni permanenti, e sapere che cosa è successo.
La vigilanza resta elevata, e nel frattempo – concludono gli autori di un editoriale di commento - chi accusa i sintomi deve essere ascoltato, analizzato dal punto di vista della salute e, per quanto possibile, aiutato.
A.B.
Data ultimo aggiornamento 3 aprile 2024
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