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La prehab prima di un intervento funziona: accorcia i tempi e diminuisce le complicanze

Si chiama prehab, da pre-habilitation, è il contrario di rehab (riabilitazione), e arriva direttamente dalla seconda guerra mondiale. La introdusse l’esercito britannico per evitare di mandare al fronte ragazzi troppo impreparati dal punto di vista fisico e psicologico. In sintesi, si tratta di una preparazione fisica e talvolta anche psicologica studiata appositamente, basata su un miglioramento della condizione atletica, su consigli nutrizionali e su terapie cognitivo comportamentali, da soli o in combinazione.

Dopo la guerra è stata adottata da alcuni ospedali come strategia preoperatoria, via via che ne emergevano i benefici rispetto alla durata della degenza, alla qualità di vita e al rischio di complicanze. Per questi motivi, negli ultimi trent’anni ha conosciuto un successo crescente, ed è stata oggetto di molti studi. E ora una metanalisi pubblicata sul British Medical Journal lo conferma: la prehab funziona, e andrebbe sempre consigliata.

Nello specifico, i ricercatori dell’ospedale di Ottawa, in Canada, hanno analizzato i dati provenienti da 186 studi che hanno coinvolto oltre 15.600 persone, e hanno dimostrato che la preparazione accorcia i tempi del ricovero post chirurgico e riduce il rischio di complicanze. L’allenamento fisico è lo strumento più efficace, seguito da una corretta alimentazione, ma anche le diverse possibili combinazioni dei due con le terapie psicologiche sono efficaci.

Le ricerche comprese nel lavoro sono state sempre effettuate presso singoli ospedali, e sono quindi paragonabili solo in parte: la qualità statistica delle conclusioni è considerata bassa. Per tale motivo, lo stesso ospedale ha avviato due nuove sperimentazioni multicentriche, una delle quali con corsi tenuti in ospedale, l’altra con programmi da realizzare a casa. I primi risultati dovrebbero essere disponibili entro pochi mesi.

 

A.B.
Data ultimo aggiornamento 10 febbraio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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