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La plastica è ovunque, e sta formando
un nuovo materiale, fondendosi con le rocce

La plastica è talmente pervasiva, sulla Terra, da aver dato vita a nuove specie chimiche: quelle derivanti dalla fusione dei polimeri che la compongono con le rocce. La prima scoperta è del 2020, in Brasile, dove sono state trovate quelle che sono state ribattezzate antropochine, da olefine (derivati del petrolio, quali sono le plastiche) antropiche, per indicare che questi strani composti sono i marcatori dell’Antropocene, la nuova era geologica innescata non da eventi naturali, ma dall’azione dell’uomo, definita così nel 2008.

Ora una nuova segnalazione giunge dalla Cina, dove nei pressi della città di Hechy sono stati trovati altri composti, chiamati plastiglomerati, cioè aggregati di plastica. La rilevanza della scoperta, per il momento relativa a soli quattro campioni, sta anche nel fatto che gli autori, ricercatori della Tsinghua University di Pechino, hanno riportato su Environmental Science and Technology le prove della formazione di legami chimici tra i polimeri più comunemente usati per gli alimenti (polietilene e polipropilene) e i minerali delle rocce, probabilmente favoriti dall’azione dei raggi UV del sole o da quella di microrganismi residenti nelle rocce stesse. E il dato più preoccupante è che questi legami sono deboli e gli agglomerati, sottoposti in laboratorio a normali cicli di umidità e secchezza (per simulare diverse condizioni atmosferiche), rilasciano microplastiche molto più velocemente di quanto non accada ai polimeri originali per esempio nelle discariche, nelle acque reflue o nei sedimenti marini.

Nonostante gli sforzi, l’inquinamento da plastica continua a crescere, e si stima che degli 8,7 miliardi di tonnellate prodotte tra il 1950 e il 2021 solo l’11% sia entrato in un ciclo di riutilizzo. Per illustrare le possibili soluzioni, Nature ha appena pubblicato un lungo articolo nel quale, a fronte di dati drammatici, illustra anche le possibili soluzioni.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 14 aprile 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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