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La clown-terapia accorcia la durata di cure
e ricoveri per i bambini con la polmonite

Per i bambini ricoverati a causa di una polmonite, la cosiddetta clown-terapia, cioè la presenza di clown che coinvolgono i pazienti in attività giocose, può essere di grande aiuto, accorciando il ricovero, diminuendo la necessità di antibiotici, favorendo un recupero più tempestivo e aiutando anche i genitori. Lo conferma uno studio presentato al congresso della Società Europea di Medicina Respiratoria svoltosi nei giorni scorsi a Vienna, e condotto dai pediatri e pneumologi del Carmel Medical Center e della Rappaport Faculty of Medicine del Technion - Israel Institute of Technology, di Haifa, in Israele. 

In esso infatti 51 bambini e ragazzi di età compresa tra due e 18 anni, ricoverati per una polmonite, sono stati sottoposti alle normali cure, oppure alle stesse, più due visite al giorno, ciascuna di 15 minuti, di un clown medico, ossia di una persona che aveva seguito una formazione specifica, per i primi due giorni. La clown terapia, non codificata a livello internazionale ma in questo caso elaborata dal Dream Doctors Project israeliano, consisteva nel coinvolgere il piccolo paziente in musica, canti, scene comiche, attività ludiche e percorsi creativi. Il risultato è stato che i bambini sottoposti a questo tipo di cura hanno avuto una permanenza media in ospedale di 43,7 ore, contro le circa 70 dei bambini di controllo, e bisogni di soli due giorni di trattamenti antibiotici endovenosi, contro i tre giorni degli altri. In più i marcatori delle infiammazioni, della respirazione, del battito cardiaco sono risultati significativamente migliori. E anche i genitori hanno beneficiato del clima più sereno.

La presenza di clown adeguatamente formati può quindi apportare grandi benefici ai piccoli pazienti, alleviando molto lo stress e l’ansia, e permettendo loro di seguire meglio le terapie, e di vivere in modo più sereno il rapporto con i medici, con i genitori e con le cure. E tutto questo equivale, a tutti gli effetti, a una cura.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 10 settembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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