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L’eccesso di sale in cucina può scatenare
la depressione, o aggravare quella esistente

C’è un legame specifico tra l’eccesso di sale (cloruro di sodio) in ciò che si mangia e la depressione. E ora, probabilmente, si è capito anche da che cosa è determinato, grazie a uno studio appena pubblicato sul Journal of Immunology dai ricercatori della School of Basic Medical Sciences della Medical University di Nanjing, in Cina.

Il nesso tra assunzione di quantitativi eccessivi di sale, estremamente frequente un po’ in tutto il mondo (in media, ne assumiamo tutti il doppio di quanto sarebbe necessario, e certi alimenti da fast food ne contengono fino a 100 volte la dose quotidiana consigliata), è stato suggerito da tempo in base a studi su popolazioni, ma non era mai stato spiegato nel dettaglio. Per questo i ricercatori cinesi hanno lavorato su modelli animali, alimentandoli per cinque settimane con una dieta normale, e poi con una ad alto tenore di sodio. Dopo quest’ultima, gli animali hanno mostrato tutti i comportamenti tipici della depressione, quali l’assenza di curiosità. Inoltre, nel loro organismo (in particolare nel sangue, nella milza, nel cervello) erano presenti grandi quantità di una specifica citochina, l’interleuchina 17A (IL17A), già associata, in altre ricerche, alla depressione e all’ansia. Ma gli autori hanno fatto anche un’altra scoperta importante, ovvero hanno identificato una sottoclasse di linfociti T, che hanno chiamato gamma-delta, che sarebbe responsabile della produzione di IL17A. La conferma viene dal fatto che, se si blocca la sintesi di questi linfociti, non si vede un aumento dell’IL17A, e neppure della depressione. Il che, tra l’altro, apre nuove prospettive per la cura della depressione stessa, a prescindere dal sale.

Il consiglio è dunque quello di cercare di diminuire il più possibile l’apporto di sale, anche per evitare diverse altre malattie associate agli eccessi quali quelle cardiovascolari.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 20 maggio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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