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L’antistaminico clemastina potrebbe essere
efficace anche nella sclerosi multipla

Un vecchio antistaminico, la clemastina, potrebbe diventare il primo di una nuova, rivoluzionaria famiglia di farmaci per la sclerosi multipla. I risultati di uno studio pubblicato su PNAS dai neurologi dell’Università della California di San Francisco, confermano infatti che l’effetto clinico sui sintomi, segnalato da una decina di anni, è determinato da un’azione mai ottenuta con nessuno degli altri farmaci oggi in uso: la rigenerazione della mielina, obbiettivo inseguito – finora senza successo - da decenni. 

Per giungere alle loro conclusioni, gli autori hanno utilizzato la risonanza magnetica per quantificare l’acqua presente in una zona del cervello particolarmente colpita dalla perdita di mielina che caratterizza la malattia: il corpo calloso. Nella sclerosi multipla, infatti, proprio a causa della degradazione progressiva di questa sorta di lamina che protegge le fibre nervose, c’è molta più acqua libera, tra una fibra e l’altra, rispetto a quanto non accada in un cervello sano. Per questo, la misura dell’acqua fornisce una visione chiara di ciò che accade alla mieliona. Così, analizzando il cervello di 50 persone che avevano partecipato a uno studio finalizzato a verificare gli effetti della clemastina sui sintomi, è stato possibile dimostrare che c’era stato un effetto mai visto prima: in tutta evidenza, l’acqua libera molto diminuita, e quindi la mielina si era riformata. Secondo gli autori, probabilmente il farmaco riesce ad attivare le cellule staminali presenti, che maturano dando luogo a nuova mielina. Se così fosse, poiché le dosi necessarie sono elevate e la clamastina induce sonnolenza (fatto particolarmente indesiderato in chi soffre di sclerosi multipla, perché può aggravare i sintomi), si potrebbero progettare nuove molecole simili, ma con meno sedazione. Se così fosse, sarebbero le prime a curare effettivamente la malattia, e non solo a rallentarne i devastanti effetti.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 10 luglio 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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