POLEMICHE
L’alcol fa aumentare il rischio di cancro:
tutti lo sanno, ma nessuno lo dichiara

di Agnese Codignola
Poco prima di lasciare il suo incarico, Vivek Murthy, Surgeon General of the United States (una sorta di capo dei medici statunitensi, figura che non esiste in Europa) ha reso noto un suo rapporto sull’aumento del rischio oncologico associato al consumo di alcol etilico, o etanolo. Il documento si concludeva con un forte appello a introdurre una legge che obbligasse i produttori a inserire in etichetta un richiamo specifico, in modo simile a quanto avviene per i pacchetti di sigarette.
La proposta ha suscitato accese discussioni, anche se era basata su dati incontrovertibili. I produttori di alcolici si sono infatti subito opposti, nel timore che un’iniziativa del genere potesse scoraggiare i consumatori, e far calare ulteriormente le vendite in un mercato che è già in generale sofferenza in tutto il mondo.
Per il momento l’indicazione non è stata recepita, anche se il ministro statunitense della salute, Robert Kennedy, è un ex alcolista e si è dichiarato più volte contrario al consumo di alcol, e Donald Trump non è un forte bevitore.
La situazione resta dunque immutata: nelle etichette degli alcolici venduti negli Stati Uniti è presente (dal 1988) solo una segnalazione per le donne in gravidanza, per la guida delle auto e per l’uso di macchinari, senza alcun riferimento ai tumori.
Anche nel resto nel mondo la sensibilità, per ora, è bassa. Solo 47 Paesi recano qualche richiamo in etichetta, e praticamente nessuno parla di rischio oncologico, con l’eccezione della Corea del Sud, Paese dove si cita il tumore al fegato. L’Irlanda ha in programma di inserire un avviso legato a tutti i tumori nel 2026.
Ma tanta reticenza è giustificata? Perché sembrano esserci dubbi sui danni da alcol? Che cosa dice la scienza sui legami tra alcol e tumori? Per rispondere a queste domande, e fare il punto su ciò che si è scoperto finora, la rivista scientifica Nature ha pubblicato un articolo in cui sgombra il campo dalle numerose fake news che continuano a circolare sul tema, e ribadisce che la questione è politica. Perché la scienza le sue risposte le ha già fornite, e da anni.
I DOCUMENTI FONDAMENTALI - Per capire come si sia arrivati al richiamo di Murthy, è bene ricordare brevemente la storia degli ultimi decenni.
Dopo numerosi studi, condotti tra gli anni ottanta e novanta, le autorità sanitarie internazionali hanno iniziato a definire l’alcol come un cancerogeno certo, in qualunque quantità. Così ha fatto, per esempio, l’International Agency for Research on Cancer dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di Lione (IARC), che nel 1988 ha inserito l’alcol nella stessa classe del fumo di sigaretta e dell’amianto, per quanto riguarda il rischio di sviluppare uno tra sette tumori: della bocca, della faringe, della laringe, dell’esofago, del fegato, del colon retto e, per le donne, della mammella. Più tardi, nel 2007, ha confermato quella valutazione. In seguito anche Il Global Cancer Update Programme ha fatto lo stesso, confermando anch’esso il suo giudizio nella revisione attuata nel 2018. Tre anni prima, del resto, era stata pubblicata una delle più imponenti ricerche mai condotte sul tema, una metanalisi che aveva scandagliato le possibili cause di oltre 485.000 casi di tumore, trovando che l’alcol era sicuramente tra i colpevoli.
Nel rapporto di Murthy, l’effetto è evidente: su cento donne che consumano un drink (che, per convenzione, negli USA contiene 14 grammi di alcol etilico) alla settimana o meno, se ne ammalano di tumore 14. Tra coloro che ne consumano due, il numero sale a 22. Negli uomini i valori sono pari, rispettivamente, a dieci e 13 su cento. La differenza è data dal fatto che le donne, tra le quali i tumori attribuibili all’alcol sono cinque e non tre, sono più vulnerabili per quanto riguarda il tumore della mammella, per motivi legati agli estrogeni, e ancora in parte da chiarire.
STUDI DIFFICILI DA CONDURRE - Come mai, allora, non tutti sembrano essere convinti del nesso? Probabilmente perché gli studi sugli effetti del consumo di alcol sono difficili da condurre e presentano qualche limite. Ve ne sono di due diversi tipi principali. Per quanto riguarda le persone, si fanno studi di coorte, nell’ambito dei quali si esamina un certo gruppo di individui per verificare un’ipotesi: in questo caso, se esista una relazione tra rischio oncologico e assunzione di alcol. Questi studi non dimostrano che c’è un rapporto di causa ed effetto, ma sono quasi gli unici che si possono eseguire sull’alcol, visto che non è possibile somministrare alcolici per molti anni a gruppi di persone, per poi osservare se si ammalano di tumore. Oltretutto, essendo evidente l’effetto dell’assunzione di alcol, non si potrebbero avere controlli (persone che non ne hanno bevuto) non condizionati dal fatto di sapere a quale gruppo appartengono.
Queste indagini risentono però di un ulteriore, grande limite: sono spesso basati su ciò che riferiscono i partecipanti, che possono sbagliare più o meno consapevolmente riguardo al loro rapporto con l’alcol: spesso, per esempio, si definiscono non bevitori perché hanno diminuito o smesso da diversi anni. Ma ciò non significa che le conseguenze delle antiche abitudini non si facciano sentire. Altri abbandonano l’alcol perché hanno altre malattie o disturbi, e non è quindi facile attribuire a ciascun elemento il giusto peso. Tutto ciò può non essere facile da comprendere da parte del grande pubblico, e offrire motivi per contestare dati che, invece, nel loro insieme, vanno tutti nella stessa direzione, e sono statisticamente inattaccabili.
L’altro grande settore è quello degli studi sui modelli animali, con tutti i limiti del caso.
Ciò che sembra ormai accertato sono però, se non altro, i meccanismi attraverso cui gli alcolici fanno aumentare il rischio: l’alcol produce acetaldeide, un composto che è in grado di danneggiare il DNA e, quindi, di favorire lo sviluppo di tumori. Inoltre l’alcol induce uno stress ossidativo, e aumenta la solubilità di altri cancerogeni come quelli del fumo di sigaretta, potenziandone l’effetto.
Un ulteriore limite di queste ricerche arriva poi dalla disomogeneità delle unità di misura utilizzate, sia perché ogni bevanda alcolica contiene quantità diverse di alcol, sia perché un drink standard (espressione utilizzata spessissimo negli studi per quantificare il consumo medio), cambia da Paese a Paese. Per esempio, negli Stati Uniti un "drink" contiene in media 14 grammi di etanolo, in Canada 13,4 e in Gran Bretagna 8. È evidente che tale arbitrarietà genera molta confusione e che sarebbe opportuno uniformare le unità di misura.
E LE DOSI? - Uno degli argomenti più popolari è quello secondo cui piccole dosi di alcolici non siano dannose. Ma è proprio così? A quanto pare no. Secondo una metanalisi pubblicata nel 2024, che ha preso in esame 23 studi, anche consumi di 5 grammi di etanolo al giorno (un terzo di drink amerricano) portano a un aumento del rischio di tumore della mammella.
Secondo Murthy, rispetto a chi non beve alcol, anche per dosi così basse si ha un incremento del rischio del 16,5% per le donne e del 10% per gli uomini: non esiste, dunque, un dosaggio sicuro, e non è stato trovato un limite al di sotto del quale non si veda un effetto negativo.
LE ALTRE VARIABILI - Ciò che cambia è invece l’entità del rischio, a seconda della sede del tumore. Così, per esempio, quello relativo al colon retto cresce se si bevono più di due drink americani al giorno (30 grammi circa di etanolo), mentre quello relativo al fegato sale quando le bevande alcoliche giornaliere sono tre (45 grammi di etanolo).
Poi va considerata l’età, fattore che modifica profondamente l’entità del rischio. I giovani metabolizzano meglio l’alcol, ma la probabilità di sviluppare un tumore associato a questa sostanza cambia se si è iniziato a bere per esempio a 16 anni oppure a 21, e se nel contempo si è iniziato anche a fumare, e poi se si è smesso.
LA "BUFALA" DEL VINO ROSSO - C’è poi un altro argomento che ha letteralmente fatto scuola, negli ultimi decenni: quello che piccole dosi di vino rosso possano esercitare un’azione protettiva nei confronti di infarti e ictus. L’idea fu proposta fino dalla fine degli anni settanta e poi ufficialmente nel 1992 in base all’elaborazione dei dati di alcune regioni francesi. Nelle zone dove il consumo di vino era estremamente diffuso, sembrava emergere un insolito decremento dell’incidenza delle malattie cardio e cerebro-vascolari, al punto che si parlò di “paradosso francese”. Il merito, si disse, è di un antiossidante presente nel vino rosso chiamato resveratrolo, che non a caso oggi è presente in decine di integratori.
Peccato, però, che tutta quella vicenda sia stata più che smontata: non solo non si verificano meno infarti e ictus nelle zone della Francia dove si produce e si beve vino (anzi, si notano aumenti nell’incidenza di varie malattie, proprio perché i consumi sono mediamente elevati), ma lo stesso resveratrolo non si è dimostrato migliore di qualunque altro antiossidante. Se il vino avesse qualche effetto positivo, e per ora non è dimostrato che sia così, lo dovrebbe a miscele complesse di sostanze non del tutto note.
E comunque, oggi tutti gli esperti ritengono che i rischi, soprattutto oncologici, sopravanzino – e di gran lunga – i possibili benefici, minimali, se esistenti, e associati a consumi davvero modesti di bevande alcoliche.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 4,7% di tutti i tumori è causato dall’alcol, e l’alcol è la terza causa dopo fumo di sigaretta e obesità. Nel 2020 - scrive l’OMS - in tutto il mondo l’alcol ha causato 740.000 casi di tumore.
Data ultimo aggiornamento 15 aprile 2025
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