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Il lungo cammino per ottenere le "CAR-T cells" anti-tumore - L'Assedio Bianco

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Il lungo cammino per ottenere
le "CAR-T cells" anti-tumore

Per chi si ammala di un tumore del sangue (un linfoma, un mieloma o una leucemia) e non risponde alle terapie o al trapianto di midollo osseo (o non è candidabile), oppure va incontro a una recidiva, dal 2017 c’è una possibilità in più: l’immunoterapia chiamata CAR-T, da Chimaeric Antigen Receptors-T cells, basata sulla somministrazione dei linfociti T del paziente (in inglese, T cells, elementi fondamentali del nostro sistema difensivo) geneticamente modificati in laboratorio - e poi reimmessi nel sangue del paziente stesso - affinché riconoscano le cellule malate, e le neutralizzino. Ciò può avvenire se i linfociti esprimono sulla loro superficie un recettore (una molecola in grado di "agganciarne" un’altra) che di solito non hanno, o hanno in misura insufficiente: quello per una proteina che, invece, è presente in abbondanza sulle cellule malate (ma non su quelle sane). Una volta che i linfociti lo contengono, grazie alle tecniche di ingegneria genetica, si legano indissolubilmente e specificamente alle cellule neoplastiche, e svolgono il loro compito, uccidendole. Nelle prime CAR-T approvate, la proteina in questione era la CD19, e si è rivelata un ottimo bersaglio per questo genere di approccio.

Si tratta di una cura estremamente delicata e complessa ma che, in percentuali di pazienti variabili (a seconda della malattia, del suo stadio e delle condizioni del malato) da circa un terzo a quasi il 70%, può assicurare una risposta, che in alcuni casi diventa remissione, e in altri allunga la vita di diversi mesi

Per produrre queste cure così particolari non servono le normali filiere dell’industria farmaceutica: è necessaria una vera e propria factory per terapie biologiche, che ha un’organizzazione del tutto differente, e prevede una strettissima collaborazione con il centro che ha in cura il malato. Assedio Bianco ne ha visitato una delle principali, quella dell’azienda Kite, consociata della multinazionale statunitense Gilead, inaugurata durante la prima ondata pandemica, nel marzo 2020, vicino ad Amsterdam, in Olanda, dalla quale oggi escono 4.000 immunoterapie CAR-T ogni anno

Per capire che cosa succede al suo interno, perché siano necessari tanti laboratori in cui si lavora in sterilità, su turni massimi di 4 ore dato l’isolamento necessario, è opportuno ricordare le sei tappe fondamentali della realizzazione di una CAR-T, ciascuna delle quali, di volta in volta, è modulata in base al singolo malato. La prima è la leucaferesi, cioè la raccolta del plasma del paziente (prima di questa fase, il paziente deve essere sottoposto a una chemioterapia, analogamente a quanto accade prima di un trapianto di midollo). Le sacche di plasma sono trasportate il più velocemente possibile al centro, dove subiscono una prima serie di controlli e sterilizzazioni. A quel punto i linfociti presenti vengono separati, con vari mezzi quali la centrifugazione, dalle altre componenti, fino a ottenere una soluzione concentrata e pronta per essere trattata. Il terzo passaggio è preliminare alla vera e propria modifica, perché i linfociti devono essere anche attivati, cioè resi molto sensibili e reattivi, pronti a svolgere le loro funzioni, grazie al contatto con alcune sostanze attivanti. Si passa così al momento più delicato, quello dell’infezione con un vettore virale (prodotto dalla stessa azienda) che contiene le informazioni genetiche per l’espressione del recettore di CD19. Se tutto procede per il meglio – e ognuna di queste fasi richiede una quantità di verifiche e di controlli impressionante - i linfociti sono sottoposti all’ultimo passaggio: quello dell’espansione, cioè della crescita, fino a quando la concentrazione è sufficiente per essere una terapia. A quel punto si attiva la complessa catena di trasporto (sempre in azoto liquido, con i campioni sterili congelati, monitorati da sensori e tracciati in ogni momento); e la terapia, realizzata in modo specifico per ogni singolo paziente, viene portata al centro oncologico, dove sarà infusa in condizioni controllate, perché in alcuni malati ci può essere la temuta cosiddetta tempesta citochinica, cioè una reazione immunitaria troppo forte, da gestire con molta attenzione e solo in strutture attrezzate a farlo.

Tutto questo spiega perché in Svizzera i centri accreditati dall’azienda siano solo 9, uno dei quali è in Ticino, presso lo IOSI di Bellinzona, nel reparto di ematologia diretto da Georg Stüssi (le altre due aziende che hanno ottenuto l’approvazione di una delle 6 CAR-T in commercio sono Britsol-Meyers Squibb e Novartis che, a loro volta, hanno i propri centri di riferimento).

Le CAR-T sono un settore in grande fermento: al momento, ce ne sono alcune nelle fasi più avanzate della sperimentazione clinica, in alcuni casi dirette contro bersagli diversi, o realizzate su sottotipi di linfociti differenti, per le numerose possibili forme di leucemie e altri tumori del sangue (molti dei quali sono rari); si spera di giungere anche a CAR-T per i tumori solidi, anche se in quel caso la situazione è più complessa a causa del microambiente che circonda la massa (il tumore per il quale gli studi sono più avanzati, da questo punto di vista, è quello del fegato).

Lo stabilimento di Kite, costato 350 milioni di euro, è già in espansione, come lo sono anche quelli di altre aziende, e ciò significa che anche i costi, per ora molto alti, dovrebbero scendere, via via che le procedure saranno sempre più standardizzate e automatizzate. Oggi una terapia a base di CAR-T cells costa infatti, mediamente, dai 400.000 euro in su (fino a punte addirittura di 700.000), una cifra elevatissima che, tuttavia, non è molto diversa da quella che si raggiunge con anni di chemioterapia, o con un trapianto di midollo. Ma è evidente che si tratta di un impegno economico che non tutte le strutture o i sistemi sanitari possono permettersi su grandi numeri. Per questo si spera che la ricerca vada avanti, anche per assicurare tassi di risposta migliori, che rendano i costi più accettabili rispetto ai tassi di risposta. 

Infine, per far comprendere meglio che cosa significa essere sottoposti a una CAR-T, l’azienda ha sostenuto la realizzazione di un podcast in quattro puntate, nel quale una paziente (Eleonora) racconta la sua esperienza.
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(Nella foto in alto, dell’agenzia iStock, una raffigurazione rielaborata al computer della leucemia linfoblastica acuta, una delle forme di tumore del sangue che, in specifici casi, può essere curata con le CAR-T cells)

A.B.
Data ultimo aggiornamento 20 marzo 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Le “CAR-T cells” usate contro i tumori funzionano anche per curare il lupus?


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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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