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Il Crohn non può fermare
la mia vita da reporter

di Claudia Zanella

Mi chiamo Claudia Zanella e ho 30 anni. I miei sogni sono fatti di carta. Quella profumata d’inchiostro dei quotidiani. Sono una giornalista professionista. Prima sono stata una studentessa, una neolaureata e una giovane donna iscritta al Master in Giornalismo a Milano. Con il morbo di Crohn.

Non so dirvi ancora in quale misura la scoperta di avere questa malattia abbia determinato il raggiungimento precoce dell’obiettivo che mi ero posta molti anni prima del suo arrivo. La malattia a volte purtroppo costringe alla resa, io ho caparbiamente preteso di scrivere il mio futuro proprio come l’avevo sempre immaginato. E forse sono sulla buona strada.

Sono malata, si, ma non completamente. La malattia non ha rosicchiato come un topolino nella dispensa anche il talento, il desiderio, l’energia di scrivere, raccontare e trasformare il mio sogno di carta in una realtà solida come il cemento: volare verso il Sudamerica e fare la reporter di guerra.

Purtroppo il precariato, quello dei collaboratori esterni ai quotidiani, rende questa faccenda, il mio futuro, un po’ più complicata. E qui la malattia non c’entra affatto. Scrivo per La Repubblica, e già mi sembra incredibile poterlo dire a voce alta.

Ogni giorno mi sveglio e vado a caccia. Di notizie. 

Ogni giorno passo ore interminabili al telefono, intervisto, compongo con passione. Senza un pezzo di carta, incredibile, che possa farmi poggiare un solo piede a terra.

Lo stress del precariato, sembrerà un’ovvietà dirlo, è davvero acerrimo nemico delle malattie autoimmuni, anche della mia. Mi espone costantemente al “rischio” di nuove infiammazioni, a volte sono costretta a rallentare il ritmo.

Tutto comincia dalla febbre, che non se ne va. Ci sono mesi meno buoni di altri, e anni come quello trascorso un po’ più difficili da superare. Ma si impara con il tempo a calcolare l’imprevisto, perché se non scrivi un giorno non vieni pagato, e questo per una giovane giornalista con tante speranze è il pane quotidiano. Perciò stringo i denti, quando so di avere pezzi importanti cerco di risparmiare sulla vita privata, centellinare le energie per lasciare al mio corpo le risorse necessarie.

Ho imparato a rinunciare ad alcuni piaceri della tavola, i fritti, i formaggi freschi, le verdure e gli alimenti piccanti. Gli strappi alla regola sono proprio inimmaginabili, si pagano dal primo all’ultimo.

Sono pure fortunata, perché il morbo di Crohn con me c’è andato abbastanza leggero. Assumo farmaci blandi, l’antibiotico Ciprofloxacina, faccio controlli periodici e mi aggrappo alla speranza che la situazione continui a non peggiorare.

Sono fortunata anche perché i miei colleghi e le persone per le quali lavoro non hanno mai considerato la mia malattia una condizione penalizzante per questa professione. Alcuni non sanno bene cosa sia Crohn. Proprio come me, prima di incontrarlo.

Con l’“alieno” ci convivo dal 2010. La nostra è una lunga amicizia. All’inizio nessuno sapeva dirmi che malattia avessi, non è così facile neppure per i medici “beccare” subito il colpevole.

Febbre e sangue nelle feci possono voler dire un sacco di cose.

All’inizio mi avevano diagnosticato la rettocolite ulcerosa (spesso le due patologie vengono confuse) e soltanto alcuni mesi dopo gli specialisti hanno trovato il vero responsabile dei miei problemi. Purtroppo non la soluzione.

Si sa, i pazienti con malattie autoimmuni non possono guarire del tutto. Possono soltanto confidare nel progresso della medicina, magari per migliorare parzialmente la vita di tutti i giorni.

Si sa, anche i giornalisti veri non possono guarire. Devono scrivere, per essere felici, e migliorare un po’ le condizioni di vita altrui.

Chissà, forse un giorno volerò davvero in Sudamerica, forse qualcuno sceglierà la mia voce e la mia penna. 

Se me lo chiedessero oggi, partirei subito. Quella valigia è pronta da molto tempo e dentro ci sta pure il morbo di Crohn. 

A volte la malattia ti aiuta a scegliere più in fretta e con più coraggio, ti scarica addosso la forza di un temporale. Con i lampi che fanno luce nella totale oscurità. Sono determinata a farcela, anche per quelli che del morbo di Crohn conoscono soltanto la forza brutale e devastante.  Dovrò fare i conti con la paura di andare dove non potrei disporre di cure adeguate, e dove il cibo, in particolare alcuni ingredienti, potrebbero nuocere alla mia salute. Ma chiedetemelo pure ora. Parto.

(testimonianza raccolta da Maria Santoro)

Data ultimo aggiornamento 12 ottobre 2017
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: colite ulcerosa, malattia di Crohn



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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