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Il conte Dracula aveva davvero un rapporto speciale con il sangue: lo perdeva dagli occhi

Il suo vero nome era Vlad III, governatore (voivoda, secondo il termine slavo dell’epoca) di Walachia, ma tutti lo conoscono come Conte Dracula (nome che significa figlio del drago), dal romanzo di Bram Stoker, scritto nel 1897, che ha ispirato innumerevoli altri libri e film. Vissuto a metà del 1400 in Romania, è noto per la sua efferatezza contro i nemici: si stima che ne uccise fino a 80.000, in molti casi per impalamento. Ma ciò che si dice della sua attrazione verso il sangue umano, ovviamente, non ha nulla di vero. Piuttosto, l’associazione tra Vlad e il sangue potrebbe essere arrivata fino a noi a causa di una malattia di cui, forse, soffriva. Lo suggerisce uno studio appena pubblicato su ACS Analytical Chemistry condotto da Vincenzo Cunsolo, ricercatore dell’Università di Catania, che ha utilizzato una particolare pellicola chiamata EVA, dal nome del polimero di cui è costituita (etilen-vinil acetato), per estrarre le proteine presenti in due lettere del Conte senza danneggiarle. Quindi ha analizzato le tracce con la spettrometria di massa, ed è riuscito a distinguere le proteine e i loro frammenti peptidici in base all’età. A quel punto ha studiato solo quelle risalenti all’epoca di Vlad, supponendo che siano le sue, e ha fatto alcune scoperte rilevanti. In particolare, ha trovato 16 proteine umane collegate alla pelle, al respiro e al sangue e, in base ad alcune caratteristiche, ha avanzato l’ipotesi che il conte soffrisse di patologie respiratorie ma, anche, di una condizione molto particolare chiamata emolacria, cioè perdita di sangue dagli occhi, attraverso le lacrime, manifestazione di diverse patologie infettive o tumorali quantomai adatta per un personaggio così crudele e inquietante. Inoltre, Vlad potrebbe essere stato esposto alla peste.

Più che di vittime umane, probabilmente avrebbe avuto bisogno di una medicina più capace di quella del 1400 di affrontare le infezioni e altre malattie.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 1 settembre 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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