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Macrofagi "sconosciuti" dentro il cuore potranno aiutarci contro l’infarto

Una ricerca pubblicata sulla rivista Immunity rivela l’esistenza di cellule del sistema immunitario mai identificate prima. Nuovi farmaci potrebbero potenziare la loro capacità di riparare i danni

di Agnese Codignola

I ricercatori della Washington University School of Medicine di Saint Louis (Stati Uniti) hanno compiuto un passo in avanti importante nella conoscenza del ruolo del sistema immunitario nel mantenimento della salute del cuore.

Da tempo è noto che alcuni elementi del sistema immunitario e, in particolare, i macrofagi, intervengono in caso di stress cardiaco come quello dovuto all’ipertensione o a un infarto. Ma, finora, si è sempre pensato che esistesse una sola popolazione di macrofagi, generati nel midollo osseo (a partire dalle cellule staminali del sangue) e da lì trasportati, attraverso il sistema circolatorio, in tutti gli organi e tessuti.

Gli autori dello scoperta, di cui dà conto la rivista PNAS hanno invece dimostrato che la realtà è molto più complessa di così: alcuni organi, tra i quali il cuore, conservano al loro interno una popolazione di macrofagi immaturi, di origine fetale, e ne richiamano poi altri, adulti, dal circolo sanguigno. Non solo: anche dal punto di vista della funzione, le due popolazioni sono diverse. I macrofagi maturi hanno infatti un’attività pro-infiammatoria, che quindi può esacerbare un danno causato da un altro fattore come la pressione alta, mentre quelli fetali promuovono la cicatrizzazione del tessuto cardiaco e favoriscono la guarigione. Ciò spiegherebbe perché alcune persone recuperano più in fretta e meglio di altre dall’infarto (dipenderebbe, infatti, dai diversi equilibri tra queste due popolazioni) e perché le persone colpite da malattie come il diabete, nelle quali i macrofagi presentano diversi squilibri, sono in grado di riparare i danni dell’infarto con molta maggiore difficoltà.

Ora che sono note le diverse "tipologie" di macrofagi - hanno concluso i ricercatori americani - sarà possibile studiare strumenti farmacologici specifici per potenziare o spegnere una delle due popolazioni, a seconda dello scopo terapeutico che si vuole raggiungere.

 

Data ultimo aggiornamento 17 gennaio 2014
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: diabete, ipertensione, macrofagi



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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