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Gli sherpa nepalesi si mantengono in salute grazie ai loro reni, particolarmente efficienti

Gli sherpa nepalesi, che vivono nella zona dell’Himalaya, hanno un adattamento più rapido ed efficiente alle condizioni indotte dall’altitudine e dalla conseguente carenza di ossigeno o ipossia. E uno dei meccanismi fondamentali che permettono loro di vivere bene anche sopra i 3.500 metri passa dai reni, che riescono a compensare molto meglio di quanto non accada di solito gli scambi gassosi in ipossia, assicurando che l’organismo non abbia un pH eccessivamente basico, come invece accade alle persone che vivono a quote più basse.

Il ruolo dei reni è stato dimostrato in uno studio condotto dai ricercatori della Mount Royal University di Calgary (Canada) su una quindicina di persone che vivevano a quote basse e su altrettanti sherpa (la cui appartenenza al popolo himalayano è stata confermata attraverso analisi genetiche), fatte salire da 1.400 a 3.500 metri in otto-nove giorni. Come è stato poi illustrato su PNAS, i parametri dell’ossigenazione del sangue, della funzionalità renale e della respirazione hanno fatto emergere con chiarezza le differenze tra i due gruppi: gli sherpa, infatti, avevano livelli inferiori di CO2 nel sangue rispetto agli altri, e un pH stabile, mentre i controlli ne avevano uno più basico, segno di una condizione che può diventare pericolosa, l’alcalosi, dovuta alla difficoltà di adattamento alle quote estreme.

Si stima che oggi nel mondo 14 milioni di persone vivano al di sopra dei 3.500 metri, e che il numero possa aumentare in conseguenza del riscaldamento del clima. Conoscere nel dettaglio in che modo popolazioni come quelle degli sherpa si siano adattate all’altitudine nel corso dei secoli, può essere utile a tutti, e non finisce di stupire. In questo caso, per esempio, il ruolo dei reni non era mai stato descritto prima, e apre la via a una serie di nuove sperimentazioni e approfondimenti.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 3 gennaio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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