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Fra i labirinti della Scienza
vince solo la capacità di giocare

Lo scrittore Benjamín Labatut (© Cristóbal Palma)

di Nanni Delbecchi

Quando abbiamo smesso di capire il mondo abbiamo cominciato a raccontarlo; e quando abbiamo iniziato a raccontare come funziona il mondo abbiamo smesso di vederne il senso. Dopo il successo internazionale di Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021), con MANIAC il cileno Benjamín Labatut prosegue nella sua personale, brillante fissione della letteratura contemporanea, saldando storia della scienza, biografia più o meno immaginaria e potenza narrativa. «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi», ha detto il più novecentesco degli scrittori del Novecento; Labatut prende alla lettera il consiglio di Kafka in questa «opera di finzione basata sulla realtà», come lui stesso la definisce nei ringraziamenti, e dove in effetti finzione e realtà si influenzano in modo imprevedibile e inesorabile, simili a onde elettromagnetiche.

MANIAC si divide in tre parti che corrispondono ad altrettante biografie – due scienziati e un giocatore di Go: biografie non di pari misura ma equivalenti per peso specifico e rispondenti a un unico filo rosso. 

Il libro si apre con il suicidio dell’austriaco Paul Ehrenfest, matematico, fisico teorico e genio bipolare sopraffatto dalla depressione, che in un’Europa segnata dall’ascesa del Nazismo si tolse la vita dopo aver ucciso il figlio affetto dalla sindrome di Down. È una sorta di prologo sulla doppia natura della rivoluzione scientifica avvenuta nel secolo che abbiamo alle spalle, angeli e demoni del secolo della relatività e del calcolo quantistico applicato. Il secolo del dominio della matematica nella tecnologia, e del crescente dominio della tecnologia nella vita quotidiana degli uomini. Una morale che viene confermata dalla favola nera del matematico ungherese naturalizzato statunitense John von Neumann, primo espositore della Teoria dei giochi, coinvolto nel Progetto Manhattan di Los Alamos, ossessionato dall’idea di realizzare il calcolatore universale teorizzato da Alan Turing. Da qui nascerà il progetto controintuitivo di von Neumann: la costruzione del Mathematical Analyzer, Numerical Integrator And Computer, acronimo di MANIAC. In pratica, il progenitore di quell’Intelligenza Artificiale alla cui evoluzione stiamo assistendo giorno dopo giorno. Eppure, per battere l’intelligenza umana una volta per sempre alla macchina manca ancora qualcosa. Le manca “la mossa 78”, ovvero la mossa ignota all’AI che ha permesso al campione mondiale di Go Lee Sedol di battere il calcolatore che per tre volte lo aveva già sconfitto in questa variante degli scacchi elevata all’ennesima potenza predittiva. Labatut sceglie Lee Sedol per concludere la sua narrazione e per dirci che quello che distingue gli uomini dalle macchine è la capacità di giocare, e questa è l’ultima carta che ci resta, appunto, da giocare. 

«I sentieri selvaggi della scienza sono ricchi di selvaggina pregiata per la letteratura», ha scritto Italo Calvino, e i tre eroi di MANIAC, così veri e così immaginari, ne sono una conferma insieme all’appassionata perorazione sulla natura saturnina del genio. «C’è una relazione tra intelligenza e malinconia», e non potrebbe essere diversamente: più comprendiamo come funzionano le cose e più ce ne sfugge la ragione ultima, così la mente che insegue i confini della matematica rischia la follia, sfidando un dio a cui non crede più. A differenza di Carlo Rovelli, Labatut non è affatto ottimista sulla visione disvelata dalla fisica quantistica nel Novecento, e tuttavia non è detta l’ultima parola. Da quando abbiamo smesso di trovare un senso all’universo, in quel momento abbiamo capito che l’unico senso possibile è nell’inseguirlo. Questo ha fatto per secoli la letteratura, e ancora non ha smesso. Non sarà mai detta l’ultima parola, finché ci saranno parole per dirlo.
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Nella foto in alto, lo scrittore Benjamín Labatut (© Cristóbal Palma)

 

Data ultimo aggiornamento 14 ottobre 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: recensioni



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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