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Ecco perché i virus respiratori
colpiscono di più quando fa freddo

di Agnese Codignola

Come è evidente, queste settimane, un po’ in tutto l’emisfero nord, e come è noto da tempo, i virus respiratori colpiscono più duramente nei mesi invernali, al punto da essere definiti stagionali anche se, quando endemici, in realtà circolano tutto l’anno. L’interpretazione più comune chiama in causa gli umani: sarebbero i loro comportamenti, e l’abitudine a radunarsi in luoghi affollati al chiuso, con scarso ricambio d’aria, a favorire la diffusione delle infezioni. Ma se da una parte questa può essere una concausa, secondo numerosi esperti non è mai stata una motivazione sufficiente: lo si intuisce osservando l’andamento delle infezioni, che si moltiplicano anche laddove non vi sono affollamenti ma, soltanto, basse temperature. 

Da alcuni anni ci sono prove indiziarie del fatto che c’entri un effetto della temperatura sul sistema immunitario, tra le quali uno studio presentato al congresso della Società americana di microbiologia di quasi dieci anni fa e ripreso dalla rivista scientifica Nature, che mostrava un generale abbassamento delle difese in seguito all’esposizione alla basse temperature, ma finora nessun risultato era stato davvero convincente.

Ora però tutto potrebbe cambiare, grazie a un lavoro che non solo spiega che cosa accade, ma indica anche almeno due tipi di possibili bersagli per nuove strategie terapeutiche, almeno nel caso di infezioni virali. I ricercatori della Harvard Medical School di Boston (Stati Uniti) hanno infatti dimostrato che la variazione della temperatura esterna influisce sull’immunità innata, cioè sulle reazioni che si scatenano non appena i virus entrano in contatto con le mucose del naso e delle prime vie aeree. In quel momento, infatti, grazie all’attivazione di specifici recettori chiamati TLR3, si attiva la secrezione delle prime, potenti armi di difesa: piccole vescicole chiamate proprio così, SV, da Small Vesicles, la cui superficie è ricoperta da strutture recettoriali molto simili a quelli a cui normalmente si attaccherebbero i virus. In caso di infezione, infatti, il loro numero cresce di 20 volte, rendendo la superficie “super appiccicosa”, come hanno spiegato gli autori. I virus – e in questo caso ne sono stati studiati tre: un coronavirus e due rhinovirus - vengono così intercettati e si legano alle SV come a spugne biologiche, evitando di andare a legarsi ai recettori dei tessuti, e diminuendo drasticamente la propria possibilità di replicarsi. E non è tutto: al loro interno, le SV contengono piccoli frammenti di RNA chiamati miRNA17 che esercitano una potente attività antivirale e che, sempre a seguito del contatto con i virus, aumentano e diventano fino a 13 volte più concentrati rispetto a quanto si vede nelle cellule non preposte alla difesa. Insieme, recettori di superficie delle SV e miRNA17 dispiegano quindi un attacco in due tempi che, in condizioni normali, si rivela micidiale per i virus, e impedisce all’infezione di progredire. 

Ma, come riferito sul Journal of Allergy & Clinical Immunology, quando fa freddo, tutto cambia. Studiando in laboratorio una serie di colture di cellule delle mucose nasali prelevate da quattro volontari esposti a 5°C per soli 15 minuti (periodo durante il quale la temperatura delle mucose stesse  cala di 9°C), i ricercatori hanno infatti dimostrato che il freddo fa diminuire in modo sostanziale la reattività delle cellule, e mette fuori uso più del 40% delle SV. Quelle che vengono comunque secrete esprimono fino al 70% di recettori virali in meno, diventando così esche molto più scadenti per i virus, i quali riescono a legarsi molto meglio ai tessuti. Anche i miRNA17 ne risentono: la loro concentrazione crolla, fino a diventare la metà di quella che si misura a temperature più calde.

Lo studio, oltre a chiarire finalmente che cosa succede, lascia intravvedere anche due possibili bersagli per nuovi farmaci: le SV, il cui numero si potrebbe aumentare con stimoli opportuni, o che potrebbero essere sintetizzate e poi somministrate (per esempio tramite spray nasali), e i miRNA17, potenti antivirali naturali, le cui caratteristiche potrebbero essere sfruttate a fini curativi.

Inoltre lo studio spiega perché l’utilizzo delle mascherine sia stato così efficace nel tenere a bada numerose infezioni respiratorie, oltre a quella veicolata dal coronavirus. Oltre all’effetto di barriera meccanica, quasi certamente i dispositivi di protezione hanno esercitato anche un effetto riscaldante, contribuendo a mantenere il microclima delle prime vie aeree costante, e preservando con esso la reattività del TLR3, delle SV e dei miRNA17 in esse contenuti.

Con la risalita dei contagi da SARS-CoV-2 (il coronavirus che provoca il Covid), molti Paesi stanno ipotizzando di reintrodurre l’uso obbligatorio delle mascherine nelle situazioni di maggior rischio, come i mezzi pubblici. Anche senza obblighi, e non solo nei luoghi affollati, in inverno l’idea può essere vincente.

Data ultimo aggiornamento 11 dicembre 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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