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E invece sono tornata a camminare

Angela Loré ha raccontato la sua storia di coraggio e di speranza in un libro, Inno alla vita, pubblicato dalle Edizioni Giuseppe Laterza

“E quando credi che sia finita è proprio allora che comincia la salita. Che fantastica storia è la vita” 

Così, con le parole di un’indimenticabile canzone di Venditti, si potrebbe riassumere il senso della vita per me. Perché la mia avventura, la mia lunga odissea con l’artrite reumatoide giovanile, mi ha portato alla fine a una vittoria che poi è anche un nuovo inizio. La battaglia è stata dura e ancora adesso la mia vita è appunto in salita, ma sono io che la sto spuntando giorno per giorno sulla malattia. Io.

Già, perché dopo 15 anni passati su una sedia a rotelle, oggi posso camminare. Faccio passeggiate nel centro storico di Altamura, il mio paese in Puglia, vado al mare,  affondo i piedi nella sabbia e sorrido. È una sensazione meravigliosa. Una scoperta quotidiana.
Guarita? Non proprio, diciamo che tengo la malattia sotto controllo e con buoni risultati.

Ma partiamo dall’inizio. Prima elementare. Una giornata di scuola iniziata come tante altre. Avevo solo sei anni e mezzo, eppure l’odore e la luce di quella mattina me li ricordo come se fossero impressi a fuoco nella mia mente. Odore di matite ben temperate, tutte ordinate in fila nell’astuccio. La luce glaciale dei neon accesi anche di giorno perché era quasi inverno e fuori il cielo era basso e grigio come un coperchio.
Durante l’intervallo tutti i miei compagni si erano scatenati a giocare, ma io stranamente no. Stavo male. Avevo i brividi, la febbre e un dolore strano alla caviglia sinistra. Ed è da lì, proprio da quell’intervallo caotico in una mattinata di novembre del 1990, che è iniziato il mio calvario. Ben presto il dolore si estese anche al ginocchio destro e iniziai a zoppicare. I miei genitori subito pensarono che la causa fosse la mia iperattività, che magari fossi caduta correndo o mi fossi stancata troppo. Dicevano che avevo l’argento vivo addosso.
Però la febbre non passava e il dolore alle articolazioni neppure. Il mio pediatra, pur avendo notato dalle analisi del sangue che i valori della Ves e della proteina C reattiva erano molto alti – e ciò indicava chiaramente un processo infiammatorio in atto -, non si allarmò per nulla e diede la colpa a un banale mal di gola.  

Ci vollero ben sei mesi di visite da altri esperti per arrivare alla diagnosi: artrite idiopatica giovanile sistemica (o morbo di Still). Una diagnosi che allora risuonò come una condanna, perché venticinque anni fa questa patologia non era molto conosciuta e soprattutto nel sud Italia c’era parecchia disinformazione.
Insomma, a farla breve a diciott’anni ero già disabile, costretta quasi sempre in carrozzina. Soltanto in casa azzardavo brevi percorsi da una stanza all’altra, ma con immensa fatica.

Quando finalmente arrivò la svolta. Conobbi una signora che aveva una figlia nelle mie stesse condizioni. Mi disse che la ragazza  stava molto meglio da quando era in cura al Gaetano Pini di Milano. 
Così cominciarono i miei viaggi al nord. Diventai una specie di pendolare della malattia. Ma una pendolare col sorriso, perché avevo individuato una speranza concreta. Al Pini mi sottoposero a una terapia col farmaco biologico che sto assumendo tuttora e la malattia cominciò a regredire.  Ves e PRC tornarono a livelli normali e nel 2012 i medici mi diedero la notizia. Ero pronta. Si poteva tentare la strada chirurgica. Non credevo alle mie orecchie quando mi annunciarono che con la mia grinta e la mia forza d’animo probabilmente sarei tornata a camminare. 

Certo, non è stato un pic-nic. Nel  giro di undici mesi ho subito 4 interventi protesici alle anche e alle ginocchia. Tra un’operazione e l’altra tornavo a casa, ad Altamura. Ricordo bene le lunghe giornate di convalescenza, cariche d’attesa e di speranza. Fremevo su quella sedia a rotelle che ora mi stava stretta più che mai. Morivo dalla voglia di appoggiare le gambe a terra per capire che effetto mi avrebbe fatto. Ma mi era stato tassativamente proibito. 

Poi finalmente, Il 22 maggio del 2013, una voce che ancora ora mi sembra appartenere alla sfera del magico mi disse: «Angela puoi mettere i piedi a terra e caricare il peso. Puoi provare a camminare». 

E da lì non mi sono fermata più.

 

(testimonianza raccolta da Patrizia Tamarozzi)

Data ultimo aggiornamento 20 maggio 2015
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: artrite reumatoide



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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